14/03/24

Dell'arte di gonfiare una notizia

 

Quando una notizia è veramente una notizia?

Da giorni veniamo bombardati da servizi sulla faccenda del foto ritocco di una fotografia della famiglia reale britannica. La principessa Kate, moglie del Principe Williams, ha avuto problemi di salute. Ricovero, poi le dismissioni dall’Ospedale (lo stesso dove è stato ricoverato, in concomitanza, suo suocero Re Carlo III, una lunga degenza in casa, tutto coperto dal più stretto riserbo.

Sappiamo del “peso” che queste vicende hanno, sia in ambito domestico (UK) che nel mondo. Cosi come sappiamo del ruolo (a volte complice, quasi sollecitato a tener viva l’attenzione) della stampa britannica. Il ruolo dei tabloid (recentemente sul banco degli imputati, ad opera del Principe Henry per presunte e conclamate, violazioni della privacy reale).

Pochi giorni fa, quasi a smentire guai seri (per sua fortuna) e al contempo rassicurare “lo regno tutto” che si, insomma, le condizioni della Principessa non sono cosi preoccupanti (si sa, il silenzio consente tutte le interpretazioni…) viene pubblicata una foto che la ritrae felice in mezzo alla prole sorridente.

E subito si scatena la bagarre. Con una dovizia di attenzioni la foto viene “vivisezionata”, passata al setaccio, analizzata come nemmeno il RIS di Parma potrebbe fare, e subito il verdetto “è taroccata”.

Apriti cielo, fioccano i titoli, scandalo a corte, quali sono le reali (si perdoni il bisticcio) condizioni di salute della Principessa, se una foto dai chiari intenti rassicuranti viene a scoprirsi che è visibilmente (i più esperti dicono anche in modo piuttosto maldestro) artefatta?

Chi, come, perché e dove. Sono questi i punti cardinali che ogni provetto giornalista dovrebbe conoscere. Si conceda che in terra d’Albione trattasi di questione preminente, ma da noi, seriamente, questa faccenda può riempire minuti e minuti dell’informazione che la Rai, servizio pubblico, ha sentito il bisogno di dedicargli?

Con tutto il rispetto per la Corona, ai reali inglesi, editori di tutto il mondo dovrebbero riconoscere una sorta di stipendio mensile. Una vera e propria fucina di notizie, vuoi spontanee come (viene il dubbio) maliziosamente propalate, tutto per tenere desta insieme, sia l’attenzione morbosa dei suoi sudditi come l’allure di una saga, che ancora nel duemilaventiquattro, in un mondo agitato da conflitti (anche di una certa entità), tiene ancora “banco” agli occhi di un’opinione pubblica non esattamente spensierata.

Cosi il fotoritocco è in prime-time, diventa faccenda internazionale, fintanto che la stessa protagonista, la principessa Kate non è costretta ad ammettere “niente paura, sono stata io!”. Dissipati i dubbi? Una parola definitiva che chiude e smonta il mistero? Macché, alla stregua di una di quelle telenovelas che si ostinano a mandare in onda nelle più infime tv private, c’è da aspettarsi uno stillicidio (attentamente programmato?) dell’intera vicenda, propinata sia sulla stampa locale che, come a far da sponda, quella internazionale.

Qualcuno lo chiama ancora “gossip”, a noi viene da rimpiangere i versi di Califano…evidentemente “tutto il resto è noia”.

 

09/03/24


Prove tecniche di distensione.

Ci siamo persi, per poco, la famosa scena della scarpa battuta con piglio sui banchi dell’aula del Palazzo di vetro di NY, ad opera di un Kruscev accigliato (abbiamo fatto in tempo a vedere l’altra, lanciata e schivata con prontezza di riflessi da Bush Junior, all’indomani della “Guerra del Golfo”).

Siamo venuti su, sotto il macabro ombrello di quell’eufemismo coniato con felice intuizione da qualche stratega di chissà quale think-tank, “equilibrio del terrore”. Equilibrio che ha consentito lunghe decadi di pace in un’Europa, storicamente teatro di guerre sanguinose.

Quest’atmosfera di calma relativa, ha visto crescere (anche se in scala diseguale) il benessere, lo stato di salute, l’istruzione di una popolazione che oggi, se non altro che per ragioni anagrafiche, se ha una memoria delle guerre ce l’ha per via della letteratura, del cinema o perché dalla comoda posizione di chi osserva le vede ancora attive in luoghi del mondo tanto lontani quanto sostanzialmente innocui.

Dal 24 febbraio di due anni fa, questo scenario è cambiato. La guerra è arrivata “in giardino”, a due passi dall’uscio di casa. L’invasione da parte della Russia di una larga parte dell’Ucraina, le scene di morte e devastazione arrivano nelle nostre case, con frequenza quotidiana, mentre stiamo finendo di consumare dei rassicuranti tortellini di Giovanni Rana.

Ed è fatale che la cosa finisca per riguardarci. Prim’ancora che per i suoi effetti perversi (prezzi delle materie prime energetiche schizzati alle stelle, politiche monetarie deflattive, tassi dei mutui sull’ottovolante) proprio perché ha spazzato via, dal nostro immaginario, l’idea che dal nostro vocabolario la parola guerra fosse sparita, talora arrivando ad una sorta di simpatia di sottotraccia per le aperture dei McDonalds sotto le torri del Cremlino…o dalle foto, inevitabilmente in bianco e nero, degli astronauti russi e americani a bordo della stessa navicella in orbita sulle nostre teste, quasi che, ma si in fondo si possa convivere tutti insieme senza eccessivi problemi.

Se c’è una cosa che ha caratterizzato i cambiamenti degli equilibri internazionali in tutto questo periodo è la velocità. A partire da quella con la quale, dalla caduta del muro di Berlino, si sono sgretolati come in una reazione a catena le nazioni cosiddette del fu “Patto di Varsavia” (quella parte di Europa che da allora guarda più ad Ovest che ad Est).

Ed è ancora la velocità, sebbene siano già passati due anni, la costante di un processo che oggettivamente non può rimanere cristallizzato nel paradigma “aiuti all’Ucraina fintanto che la Russia non si sarà ritirata”.

Una condizione di belligeranza continuata nuoce a tutti gli attori in causa. Ne soffrono i commerci, le rispettive economie. Già il ricorso alle armi, in luogo di un necessario negoziato, tradisce la volontà di sparigliare le carte, spinte da un malinteso desiderio di ridare centralità mondiale ad un paese simbolo che ha visto il suo peso specifico ridursi (e di molto) agli occhi della storia.

Il recupero di antiche vestigia, gli orgogli nazionalistici mai sopiti suonano oggi ancora più anacronistici in uno scacchiere internazionale dominato dalla fitta rete di scambi e relazioni commerciali. E’ un "mondo più piccolo" si usa dire e proprio per questo la variabile “guerra” appare tanto assurda quanto, alla lunga, controproducente. Non dovrebbe trovare posto, fra le variabili con le quali regolare i contenziosi fra stati sempre meno, in prospettiva, intesi come rigida delimitazione territoriale, in luogo di un’armonica coesistenza di stili di vita, culture, fra di essi.

Due anni, più di cento e qualcosa settimane, sono decisamente una porzione di tempo troppo lunga da sacrificare sull’altare della velocità. E c’è da sperare che sia questo, fra i tanti, l’elemento prevalente per giungere (anche in tempi inaspettati) ad una composizione del conflitto in terra d’Europa.