24/04/10

Aver paura dello scalone

Geezer bandit, all'opera












Ancora una volta, la fertile penna di qualche sceneggiatore ha anticipato, e di anni, qualcosa che poi accade veramente. Nei dintorni di San Diego, le telecamere d'ordinanza piazzate in alcune agenzie di credito hanno immortalato il protagonista di almeno sette rapine nel corso degli ultimi mesi.

L'anonimo cittadino americano, sicuramente in là con gli anni, si è guadagnato, come tutti coloro che assurgono a causa del loro comportamento alle cronache il nomignolo di Geezer-bandit (il bandito anziano). Le uniche immagini disponibili, al momento non hanno consentito di identificarlo, e la stessa FBI a quanto pare sta sudando le famose sette camicie per tentare di assicurarlo alla giustizia.

La letteratura e la filmografia sono piuttosto ricche di storie riguardanti anziani dediti al crimine.
Ricordo a braccio un film con un Marlon Brando e un De Niro, adeguatamente invecchiati, ex rapinatori, De Niro mite conduttore di un wine-bar, Brando non ricordo più se collezionista d'arte o antiquario, che decidono di tentare l'ultimo colpo, dopo anni di apparente appagamento. O ancora un film, visto tanti anni fa, nel quale ben tre anziani pensionati (common people o borderline, poco importa) statunitensi, danno vita, in giro per la più anonima fra le provincie americane, a un carosello di rapine, condite dai soliti inseguimenti, sparatorie e cotilon.
Resistendo alla facile ironia, alla istintiva simpatia per chi, proprio in virtù dell'età, rappresenta la difficoltà di vivere che rimane evidentemente indifferente alla carta d'identità, resta da chiedersi perchè.

C'è qualcosa che non va, nel welfare. La cinica struttura sociale, incentrata sulla capacità produttiva, è facile prevederlo, porterà sempre più alla ribalta casi come questo. Scomodare teorie sociologiche interpretative, subito dopo un indecifrabile sorriso, fa parte dell'armamentario del mainstream, si guarda al caso, mica a quello che c'è sotto. Va a capire perchè un uomo che a quell'età dovrebbe trovare più consono dedicarsi alla pesca in qualche laghetto, artificiale e non, prendersi cura di eventuali nipotini, abbandonarsi alle carte, ai tavoli di qualche bar di quartiere, debba suo malgrado impugnare un'arma per garantirsi la sussistenza.

Spendersi fra un pannolone e una colt, dev'essere lo scenario prossimo venturo, sul quale ancora una volta, la fantasia di uno scrittore, la bravura di un regista, si vedono sorpassare da un'altra auto, targata REALTA'.

Update: grazie alla vivida memoria di un amico sono risalito al titolo del film: è Vivere alla grande, dal bellissimo titolo in originale Going in Style - USA, del 1979 regia Martin Brest. qui

21/04/10

altro che Lynch

















L’ho visto.
M’ha terrorizzato, ma l’ho visto.
Ero all’Eur, si, difronte a questo obelisco.
Stavo li, parcheggiato su un lato della strada
che accede alla piazza con l’obelisco.
Sentivo musica, giocavo col gioco delle palline sul cellulare.
Finestrini abbassati, dopo una giornata di lavoro,
C’era il sole, ed era tutto bello.
Un pomeriggio cosi, fermo, nel sole.
La macchina investita dai raggi di questo sole.
E il verde tutto intorno, di enormi, inutili, aiuole,
falciato di fresco. E c’era il vento.
E come da dietro un acquario l’ho visto, lontano.
Un uomo vestito in abito grigio,
non molto alto, da lontano almeno.
La cosa che ha colpito la mia attenzione
era che stava tirando calci a qualcosa
Qualcosa che da lontano non riuscivo a vedere.
Ma i movimenti di questi sgraziati calci si.
Quest’uomo aveva davanti a se un cane.
Un barboncino, bianco ho distinto, che correva
Dietro a qualcosa che con il movimento goffo
Dei calci costui gli tirava,
e il cane gli riportava indietro.
E’ andato avanti un bel po’.
Il cane saltava, anche lui,
e poi ho associato,
e per qualche motivo insondabile
ho avuto paura:
l’uomo aveva gli stessi capelli del cane.

16/04/10

...e basta !!!

Tiger Woods e (attuale) consorte


















Va bene, ammettiamolo, siamo una nazione di guardoni. Meglio: ci trattano come una nazione di guardoni. Vivo nel quotidiano in realtà piuttosto distanti dal mondo del golf. Il numero delle persone che ho conosciuto che amano calcare i campi d’erba tentando di infilare una piccola pallina bianca in una serie di buche non arriva a quello delle dita di una mano. Questo non ha valore di legge, ovviamente. Banale osservare che è di gran lunga superiore quello di coloro che seguono ventidue persone darsele di santa ragione per tentare di infilare sempre cose rotonde, ma di ben altro diametro, in cose chiamate porte. Hanno, entrambi, l’erba sotto i loro piedi, questo si.

Sono mesi che la rappresentazione di una forma di servilismo culturale ci propina sequenze di una interminabile soap avente per protagonista un signore che per il solo fatto di avere la pelle di carnagione scura ed essere considerato il campione del mondo della disciplina, è entrato di diritto nella battuta snob, insieme ad Alinghi, campione del mondo di vela, battente bandiera elvetica (nazione, sarà noto, i cui confini non sono, al momento, bagnati da nessun mare).

Già il solo fatto di vedere la cura con la quale i redattori (sia dei siti dei quotidiani online, come immagino, leggendone pochissimi, della carta stampata) ci rendono edotti di tutte le vicissitudini di quest’uomo ce ne svela la dimensione. Abbiamo imparato, controvoglia, a conoscerlo. A sapere quante amanti ha avuto, ad assistere ai suoi siparietti, a sorbirci i suoi sermoni da day-after, con i quali chiedere scusa, c’è il forte sospetto, prim’ancora che alla sua famiglia, ai generosi sponsor che devono vederlo come una macchina macina-soldi. Si aprono vertigini. La condotta “morale” determinata dalla cascata di denaro, che quest’ultimo prim’ancora che essere considerato “lo sterco del demonio” possa, alla luce di quanto sopra, funzionare da qui in futuro come elemento regolatore delle dissennate condotte altrui ?

Sono cose. Oggi, il solo leggere, magari confinato nelle notiziole di spalla, delle vicende di quest’uomo ha solo un potere, su di me: quello di ricordarmi in che razza di mani è messa la nostra informazione.



[update: da vari siti di news online apprendo che il pericolo che il WWF a breve prenda in carico anche gli amanti della disciplina residenti nello stivale, è scongiurato da una possente iniziativa a firma della Ministro del Turismo, volta ad incentivare gli investimenti in campi da golf un pò in giro per la penisola, per attirare turisti con mazze in spalla. I verdi si sono detti d'accordo, e la prossima volta sarà meglio mi stia zitto.
Anzi, cerco su ebay un caddy, magari usato, e mi regalo un nuovo orizzonte esistenziale e lavorativo. Nel green.]

11/04/10

La vera portata della musica


L'altra sera sono andato a vedere uno spettacolo teatrale sui Pink Floyd, al teatro Brancaccio di Roma, "Welcome to the machine".
La musica dei PF ha informato la mia adolescenza.
Uno dei primi album (rigorosamente in vinile) che ho avuto per le mani è stato Atom Hearth Mother. Credo di aver poi ricomprato in cd anche The dark side of the Moon, Wish you where here e The Division bell.
A vario titolo hanno scandito varie tappe della mia esistenza. Sento di dovergli qualcosa. E insieme, qualche riflessione.

Il proliferare di musical, spettacoli (recentemente ha fatto il sold-out una riproposizione del famoso concerto dei Genesis, The magical box) a cosa è dovuta ?
Inconsistenza dei gruppi attuali ? Sporca e semplice operazione amarcord di qualche attempato sessantottino, inserito per bene fra gli oliati meccanismi dello showbiz per razzolare incassi facendo leva sui ricordi ? Tributo secco a gruppi di indiscussa bravura ? Un po' tutto questo, credo.

Certo la bellezza di una musica è tale anche se de-contestualizzata, spogliata da tutte le circostanze storiche che l'hanno dettata. Eppure ne è indissolubilmente legata, dal momento che le forti venature lisergiche, l'utilizzo a man bassa di tutte le diavolerie elettroniche da sala d'incisione, di cui pure in quegli anni si cominciava a fare largo uso, insieme alle accessorie sostanze stupefacenti, l'hanno caratterizzata in modo molto forte.

Syd Barrett, per tornare allo spettacolo, è la figura intorno alla quale gira tutto il musical. Che consta di scene di ballo, senza una battuta, sostenuto da una band di quattro elementi davvero valevoli ai quali facilmente si perdona qualche arrangiamento non proprio pedissequo. Degno di nota l'a-solo della cantante che ha eseguito in modo pressoché perfetto il celebre pezzo che apre The dark side of the moon.

I testi, opportunamente tradotti e sparati da un monitor collocato in alto, sono stati una sorpresa.
Per la prima volta, complice lo spettacolo gestito appunto come una via crucis di Barrett, ho potuto apprezzare la loro crudezza, il grande senso di riconoscenza dei membri del gruppo verso la sua persona, doverosamente omaggiato tanto più, dopo la sua prematura scomparsa.

Dissacratori e pop, come mai mi sarei aspettato. Hai visto ragazzo ? Quando eri giovane sentivi 'sta roba.Denunciano, con molti anni d'anticipo, gli ingranaggi dello star-system, the machine, che da il titolo all'opera “Welcome to the machine”.
Benvenuto nella macchina, dicevano, con portata profetica, se si considera sono stati scritti quasi 40 anni fa.
Quasi una vita.

05/04/10

Vivo in quadro di Edward Hopper, ma non lo dite a nessuno.


"Se potessi esprimerlo con le parole non ci sarebbe ragione di dipingerlo"
Edward Hopper

Oggi ero nella piccola libreria annessa ad un museo. C'era una personale di Fausto Pirandello. Ho dato un'occhiata ai quadri. Cromaticamente sono un soggetto difficile. Sono attratto dalla vivacità, dalla luce. E in quelli di Pirandello non ce n'è molta, di luce.
In quelli di Hopper si. Nella libreria c'era un volume enorme (saranno state 1200 pagine) Una biografia intima, c'era scritto. L'uso di quell'aggettivo mi ha turbato. Sarà colpa della troppa pubblicità che vedo, passivo, in tv. L'ho associata a qualcosa di detergente, igiene femminile.
Hopper è una calamita, per me. Resto intontito davanti alle sue tele.
Anni fa, ero a Parigi, ho preso un catalogo da una bancarella. Pochi franchi, ma era scritto in francese. Io di francese non so nulla. Quel poco che so di Hopper l'ho appreso da una donna bravissima che fa la critica d'arte, ha due lauree, e ogni tanto organizza visite guidate. Resterei le ore ad ascoltarla. Nel corso della visita alla mostra di Hopper che è a Roma in questo periodo, è stata capace di ribaltare tutto il bagaglio preconcetto che ho intorno a questo artista. Non è un malinconico. Hopper si è trovato appiccicato addosso questa convenzione. Qualcuno, e io fra questi, deve aver trovato cosi lirici i suoi quadri da averlo iscritto, contro la sua volontà, nel club degli sfigati. Nulla di più falso. Hopper, semplicemente, riprendeva la vita: cosi com'è. E credo se ne fottesse delle iscrizioni alle sue spalle.
Ho letto Dos Passos, da ragazzo. Per la precisione Ventiduesimo parallelo. Quel romanzo mi è rimasto dentro. Per la struttura, piuttosto che per la storia. E ogni tot capitoli, Dos Passos, inseriva una roba di due o tre pagine, che chiamava di volta in volta Occhio Cinematografico e Cinegiornale.
Aldo Nove ha scritto recentemente per i tipi della Iskra, un volumetto nel quale giochicchia con Hopper e con Raymond Carver.
Forse l'autore che più lo ricorda, in letteratura, è Dos Passos, non Raymond Carver.
In ogni caso Carver ha mutuato anche lui la capacità di dipingere il reale con un palo in mezzo, come fa Hopper che non infinge niente, ma “restituisce” nella sua Sera blu, un palo nella tela.
Quel palo è un punto di svolta. La dove con un banale correttore grafico, se si trattasse di una foto, si farebbe sparire agevolmente un palo che “impalla” la scena, Hopper ha il coraggio di lasciarlo tal quale e di farne un elemento prospettico capace di caricare di realismo la scena, salvo prendersi in giro in un moto di autoironia, auto ritraendosi, fra i commensali, vestito da Pierrot annoiato.
Ecco, Hopper ha questo dono. Catturare la luce, spogliandola di tutta la sovrastruttura, e renderla, restituirla appunto, come fosse una polaroid, nemmeno ritoccata a pennello.
Non c'è ansia. Ma emozione si. L'emozione che può darti vedere un campo di mattina presto baciato dai raggi lunghi e bassi del sole. Il taglio costituito da una manciata di raggi di sole, sul prato verde al quale è intento un uomo ripreso di spalle, forse un giardiniere. Una lingua di luce che diventa centrale nella scena, e che la informa, donandole un senso realistico senza precedenti.
Aprire il catalogo in francese di Hopper, e ritrovarsi a perdersi dentro i suoi quadri.
Vorrei tanto stare la dentro, adesso. Seduto al bancone di Nighthawks, o a raccontare qualche storia alla donna seduta sul letto, braccia intorno alle ginocchia, in fronte al sole di un mattino, da dentro una stanza di qualche angolo sperduto dell'America, ma che potrebbe benissimo essere anche Ostia.


UPDATE: Un film che gioca a riprodurre le scene dei suoi quadri più celebri: http://www.artribune.com/2016/06/video-film-edward-hopper-gustave-deutsch/?utm_source=artribune&utm_medium=social

all along the watchtower





Sta su Eletric ladyland.
E' la penultima traccia. Luca Barbareschi la massacra, inserendola, per qualche frazione fra uno stacco e l'altro del suo programma (shock, ma in tutti i sensi). Cosi ho ripescato nella pila dei cd quello incriminato e l'ho riascoltata, come si dice “a volume adeguato” (play loud).

E' una canzone di Dylan “All along the watch tower”. Leggenda vuole che quando gliela fecero ascoltare, quest'ultimo rimase basito, trovandosi ad esclamare “è un oceano di suono”.

Beh, è vero. Si tratta di una cascata di sonorità che ti investe senza via di scampo. E la miscela di sonorità che la porta, una fra le più felici combinazioni di quanto possano fare, da sole, una chitarra, un basso elettrico ed una batteria. Pedale, effetti e la voce quasi trattenuta di Hendrix a condire una canzone bella di suo, anche già solo cantata da Dylan.

Hendrix lo sento quando vado a correre. In cuffia è uno spettacolo. Ho scaricato (a titolo di pre-assaggio) l'ultimo suo fatto pubblicare dalla famiglia, recuperando vecchie incisioni negli archivi che ha lasciato. Album pregevole, anche al netto della tara dell'inevitabile sensazione di operazione “raschia fondo del barile” da parte della famiglia. Una goduria.

Tornando alla collezione di cd. L'altra sera dovevo aver i neuroni più effervescenti del solito ed ho intravisto uno spunto narrativo ai confini del lisergico, mutuandolo da La casa dei libri di Brautigan.
In breve un tizio sviluppa dei poteri strani che lo portano ad entrare nelle copertine dei cd.
Entrare è il verbo più appropriato: non ce l'ho, ma la finzione letteraria sorvolerebbe: Il tizio può entrare ad Abbey Road e interagire con i personaggi ivi ritratti, o con l'ambiente. Attraversare in senso opposto al quartetto di Liverpool la strada più famosa nella storia della musica, parlare con il signore che si intravede sullo sfondo, intento a salire su un auto. Oppure divertirsi a mungere la mucca che troneggia sulla copertina di Atom heart mother, o ancora entrare nella bocca, nemmeno fosse un'igienista, spalancata di In the court of the Crimsom King, per rilevare improbabili carie o gengiviti.

Un loop, che lo porta ad essere ricercato come Osama Bin Laden, invitato nei talkshow, parlare in diretta tv al mondo della sua incresciosa patologia.
E trovare, infine, conforto nel rassicurante salvadanaio del Banco del Mutuo Soccorso.
Come un nichelino qualsiasi.

03/04/10

Marketing









Mi interrogo sulla potenza della comunicazione. Annunciato da mesi, da oggi (almeno negli States) è in vendita l'IPad. Si tratta di una tavoletta che è in sostanza un pc “monco”: non ha uno slot per i cd, non ha porte usb, non ha la funzione di telefono (pur potendo connettersi alla rete via wireless o bluetooth domestico). Insomma, ho difficoltà a capire a cosa possa servire.
Nonostante questo, le cronache parlano di gente in fila da ore davanti agli Apple-store.

Mi chiedo: quanto potente è il senso di appartenenza al brand se prevale sulla effettiva fruibilità del device come si dice in gergo.
Un po' come il proliferare di SUV per le strade urbane: ruote che non hanno mai calcato una strada sterrata, ma tant'è: è la moda.
Il mito Apple somiglia ad una sorta di fede. Provate a parlare con un possessore di un qualsiasi computer della casa della mela. Vi faranno neri. Nel senso che magnificheranno le prestazioni, la semplicità d'uso, l'impossibilità di venire infettati da virus se navighi in rete.

Una serie di plus difficilmente ignorabili.
Proporre sul mercato un prodotto che sostanzialmente duplica (in tono minore) le prestazioni di un qualsiasi notebook di fascia bassa, e contare sull'immediata vendibilità, con la gente fuori ai negozi a fare la fila per aggiudicarselo (al neanche modico prezzo di 500 dollari) è roba da maghi.