14/03/24

Dell'arte di gonfiare una notizia

 

Quando una notizia è veramente una notizia?

Da giorni veniamo bombardati da servizi sulla faccenda del foto ritocco di una fotografia della famiglia reale britannica. La principessa Kate, moglie del Principe Williams, ha avuto problemi di salute. Ricovero, poi le dismissioni dall’Ospedale (lo stesso dove è stato ricoverato, in concomitanza, suo suocero Re Carlo III, una lunga degenza in casa, tutto coperto dal più stretto riserbo.

Sappiamo del “peso” che queste vicende hanno, sia in ambito domestico (UK) che nel mondo. Cosi come sappiamo del ruolo (a volte complice, quasi sollecitato a tener viva l’attenzione) della stampa britannica. Il ruolo dei tabloid (recentemente sul banco degli imputati, ad opera del Principe Henry per presunte e conclamate, violazioni della privacy reale).

Pochi giorni fa, quasi a smentire guai seri (per sua fortuna) e al contempo rassicurare “lo regno tutto” che si, insomma, le condizioni della Principessa non sono cosi preoccupanti (si sa, il silenzio consente tutte le interpretazioni…) viene pubblicata una foto che la ritrae felice in mezzo alla prole sorridente.

E subito si scatena la bagarre. Con una dovizia di attenzioni la foto viene “vivisezionata”, passata al setaccio, analizzata come nemmeno il RIS di Parma potrebbe fare, e subito il verdetto “è taroccata”.

Apriti cielo, fioccano i titoli, scandalo a corte, quali sono le reali (si perdoni il bisticcio) condizioni di salute della Principessa, se una foto dai chiari intenti rassicuranti viene a scoprirsi che è visibilmente (i più esperti dicono anche in modo piuttosto maldestro) artefatta?

Chi, come, perché e dove. Sono questi i punti cardinali che ogni provetto giornalista dovrebbe conoscere. Si conceda che in terra d’Albione trattasi di questione preminente, ma da noi, seriamente, questa faccenda può riempire minuti e minuti dell’informazione che la Rai, servizio pubblico, ha sentito il bisogno di dedicargli?

Con tutto il rispetto per la Corona, ai reali inglesi, editori di tutto il mondo dovrebbero riconoscere una sorta di stipendio mensile. Una vera e propria fucina di notizie, vuoi spontanee come (viene il dubbio) maliziosamente propalate, tutto per tenere desta insieme, sia l’attenzione morbosa dei suoi sudditi come l’allure di una saga, che ancora nel duemilaventiquattro, in un mondo agitato da conflitti (anche di una certa entità), tiene ancora “banco” agli occhi di un’opinione pubblica non esattamente spensierata.

Cosi il fotoritocco è in prime-time, diventa faccenda internazionale, fintanto che la stessa protagonista, la principessa Kate non è costretta ad ammettere “niente paura, sono stata io!”. Dissipati i dubbi? Una parola definitiva che chiude e smonta il mistero? Macché, alla stregua di una di quelle telenovelas che si ostinano a mandare in onda nelle più infime tv private, c’è da aspettarsi uno stillicidio (attentamente programmato?) dell’intera vicenda, propinata sia sulla stampa locale che, come a far da sponda, quella internazionale.

Qualcuno lo chiama ancora “gossip”, a noi viene da rimpiangere i versi di Califano…evidentemente “tutto il resto è noia”.

 

09/03/24


Prove tecniche di distensione.

Ci siamo persi, per poco, la famosa scena della scarpa battuta con piglio sui banchi dell’aula del Palazzo di vetro di NY, ad opera di un Kruscev accigliato (abbiamo fatto in tempo a vedere l’altra, lanciata e schivata con prontezza di riflessi da Bush Junior, all’indomani della “Guerra del Golfo”).

Siamo venuti su, sotto il macabro ombrello di quell’eufemismo coniato con felice intuizione da qualche stratega di chissà quale think-tank, “equilibrio del terrore”. Equilibrio che ha consentito lunghe decadi di pace in un’Europa, storicamente teatro di guerre sanguinose.

Quest’atmosfera di calma relativa, ha visto crescere (anche se in scala diseguale) il benessere, lo stato di salute, l’istruzione di una popolazione che oggi, se non altro che per ragioni anagrafiche, se ha una memoria delle guerre ce l’ha per via della letteratura, del cinema o perché dalla comoda posizione di chi osserva le vede ancora attive in luoghi del mondo tanto lontani quanto sostanzialmente innocui.

Dal 24 febbraio di due anni fa, questo scenario è cambiato. La guerra è arrivata “in giardino”, a due passi dall’uscio di casa. L’invasione da parte della Russia di una larga parte dell’Ucraina, le scene di morte e devastazione arrivano nelle nostre case, con frequenza quotidiana, mentre stiamo finendo di consumare dei rassicuranti tortellini di Giovanni Rana.

Ed è fatale che la cosa finisca per riguardarci. Prim’ancora che per i suoi effetti perversi (prezzi delle materie prime energetiche schizzati alle stelle, politiche monetarie deflattive, tassi dei mutui sull’ottovolante) proprio perché ha spazzato via, dal nostro immaginario, l’idea che dal nostro vocabolario la parola guerra fosse sparita, talora arrivando ad una sorta di simpatia di sottotraccia per le aperture dei McDonalds sotto le torri del Cremlino…o dalle foto, inevitabilmente in bianco e nero, degli astronauti russi e americani a bordo della stessa navicella in orbita sulle nostre teste, quasi che, ma si in fondo si possa convivere tutti insieme senza eccessivi problemi.

Se c’è una cosa che ha caratterizzato i cambiamenti degli equilibri internazionali in tutto questo periodo è la velocità. A partire da quella con la quale, dalla caduta del muro di Berlino, si sono sgretolati come in una reazione a catena le nazioni cosiddette del fu “Patto di Varsavia” (quella parte di Europa che da allora guarda più ad Ovest che ad Est).

Ed è ancora la velocità, sebbene siano già passati due anni, la costante di un processo che oggettivamente non può rimanere cristallizzato nel paradigma “aiuti all’Ucraina fintanto che la Russia non si sarà ritirata”.

Una condizione di belligeranza continuata nuoce a tutti gli attori in causa. Ne soffrono i commerci, le rispettive economie. Già il ricorso alle armi, in luogo di un necessario negoziato, tradisce la volontà di sparigliare le carte, spinte da un malinteso desiderio di ridare centralità mondiale ad un paese simbolo che ha visto il suo peso specifico ridursi (e di molto) agli occhi della storia.

Il recupero di antiche vestigia, gli orgogli nazionalistici mai sopiti suonano oggi ancora più anacronistici in uno scacchiere internazionale dominato dalla fitta rete di scambi e relazioni commerciali. E’ un "mondo più piccolo" si usa dire e proprio per questo la variabile “guerra” appare tanto assurda quanto, alla lunga, controproducente. Non dovrebbe trovare posto, fra le variabili con le quali regolare i contenziosi fra stati sempre meno, in prospettiva, intesi come rigida delimitazione territoriale, in luogo di un’armonica coesistenza di stili di vita, culture, fra di essi.

Due anni, più di cento e qualcosa settimane, sono decisamente una porzione di tempo troppo lunga da sacrificare sull’altare della velocità. E c’è da sperare che sia questo, fra i tanti, l’elemento prevalente per giungere (anche in tempi inaspettati) ad una composizione del conflitto in terra d’Europa.


 

 

16/02/24

 


E’ nei particolari che riposa la differenza.

Non ricordo a chi appartiene questa massima, ma non ha importanza l’attribuzione. Quello che marca la differenza, nel mestiere del giornalista (meglio, del cronista di nera) è il delicato equilibrio fra il sacrosanto diritto di cronaca e l’autocompiacimento dello splatter conclamato.

Che la stampa in Italia (ma anche altrove) non stia passando un buon momento lo attesta la modalità con la quale vengono riportati i fatti.

Ho trovato disgustoso il modo col quale, in merito ad un recente (l’ennesimo) episodio di femminicidio, il cronista abbia ritenuto di pubblicare i dettagli delle frasi attribuite all’omicida. Pressappoco “l’ha finita con un colpo di grazia” e di seguito, come a riportare le sue parole “non volevo farla soffrire”.

Ora, detto che continuando ad esporre i fatti in questa maniera si alimenta il malinteso che possa trattarsi di un macabro videogioco (e chissà che in fondo in fondo non sia proprio questo il teatro mentale nel quale prendono vita questi progetti nella testa dei protagonisti di questi, ripetuti, atti di violenza), ma davvero, nell’ottica di voler fornire un servizio di informazione a una platea sempre più distratta da centinaia di banner, le testate online devono garantirsi la sopravvivenza andando a stimolare la curiosità morbosa dei lettori?

Detto che è tutto da dimostrare il criterio secondo il quale la ripetuta esposizione di fatti violenti, la loro enfatizzazione, contribuiscano ad esorcizzare il loro ripetersi, quasi funzionassero da monito, è viceversa molto concreta la possibilità che continuando a “raccontarla” in questo modo finiscano per banalizzarla, amplificandone i perversi effetti emulativi.

In altri termini, poco mi importa della tua necessità oh articolista a gettone del grande giornalone nazionale online, che tu debba generare quanti più “click-bait” per giustificare la tua immagino non lautissima retribuzione, quello che si è del tutto smarrito è il senso della misura.

Da qui, non da altro, dipende anche la necessità di porre un freno al ripetersi di tali efferati delitti. Cominciando a trattarli per quello che sono, smettendola una volta per tutte di utilizzarli con un’inutile esibizione di dettagli sensazionalistici. Solo per la vostra maledetta sete di guadagno, andando infine a stimolare gli istinti più biechi, quella curiosità morbosa che finisce con il diventare facile benzina per il loro tristo e drammatico ripetersi.

Andate, sinceramente, affanculo!

14/02/24

Sanremo? No, Hunger games.

 Sanremo? No, Hunger games.


E’ finita, è finita, è finita. Anche quest’edizione è andata. Record di ascolti a consacrare la scelta di “scalettare” su cinque serate, affidandole una ciascuna ad un presentatore diverso. Nel dubbio tu metti che a levà se fa sempre in tempo.

Il Sanremo dell’incertezza, come fosse un termometro del Paese. Il grande disordine internazionale, con tensioni a due passi, la salute dell’economia, finita la “sbornia” del 110%, il festival dei tassi, debellata la pandemia, si scandiscono i mesi avvolti nel dubbio. Nel frattempo, ci si scopre più inclini a rimuginare preoccupazioni che a progettare radiosi futuri. E in questo il Festival non ha mancato, regalando un testa a testa che, potevano mancare? Ha dato luogo a strascichi di polemiche. Una sorta di riunione di condominio andata a male.

Se solo si accenna ad un messaggio di pace (concedete la dietrologia, ma perché perdonarla, all’epoca, alla coppia Lennon-Ono, con il loro appello-megaposter affisso nelle piazze delle più grandi città di tutto il mondo “The war is over” seguito da un prudente “if you want it”) mentre se lo pronuncia un ragazzo si smuovono ambasciatori? Piuttosto, sarebbe stato più bello se qualche canzone avesse affrontato il tema in modo più incisivo, invece di sfiorarlo appena nell’intervallo fra un concorrente e l’altro, no? Si dirà, altri tempi, le ragazze si vogliono divertire (cit.) cosi una sequela di canzoni pensate, strutturate per propendere verso la leggerezza…

Ma è davvero così? Salvo qualche testo, quello di Mahmood, quello lisergico di Bunker quarantaquattro, il “sociale” è rimasto sullo sfondo, più reggaeton che impegno (la marcetta “Un ragazzo incontra una ragazza”), figurarsi la denuncia. Ad altri (e già è un fiorire di articoli-servizi in merito) il compito dell’analisi dei testi (c’è chi si è divertito a contare quante volte ricorrono alcune parole nei brani presentati sul palco, vedi a volte la comodità degli algoritmi...?) quanto alle melodie, salvo rare eccezioni, “roba triste” come dice un mio amico, rare le “botte di vita” (posto che fra queste non si vogliano annotare i Ricchi e Poveri…). La dove la riproposizione di scansioni musicali tipiche del rap o hiphop (quello vero, made in USA) lascia spazio a qualcos’altro, in soccorso arrivano le tipiche melodie latino-america. Buone per ballare.

Ecco, si forse è di ballare che in questo momento c’è bisogno, perbacco non sono in fondo gli anni 20? Come il ragtime prese il via dalle tastiere poste nei bordelli, finita da poco la Prima guerra mondiale, mentre in Europa ci si industriava al bis, anche quella musica d’evasione, e quale miglior tappeto musicale per incontri anche bene mercenari, che rimandino ad un mai sopito desiderio di gioire?

Così, questi Hunger game di noaltri, hanno visto le solite comparsate di ospiti internazionali, Travolti da un insolito destino, quello più chiacchierato, del qua-qua. Vecchie glorie per lisciare il pelo al pubblico d’antan, metti mai si annoiasse fra un autotune e l’altro. Ma ad oggi, a palco ancora caldo, prematura qualsiasi previsione. Di solito i verdetti sono fatti per essere smentiti. E in questo il mondo delle radio, c’è da scommettere, giocherà un ruolo non secondario per “bombardarci” con motivi che vedranno così decretato il premio di consolazione (si fa per dire) del “gradimento del pubblico” (posto si voglia ancora credere all’aggettivo “libere” che le caratterizzava agli albori della radiofonia in “effeemme”, oggi saldamente dominata dalle scalette imposte da questa o da quella casa discografica).

La Noia, nome-omen, canzone vincitrice di questa edizione venti ventiquattro, vedi bene è pubblicata da una etichetta indipendente. Se si è disposti a perdonare il ricorso al ritmo della Cumbia, non propriamente tipico di Lagonegro, un piccolo segnale positivo.

20/04/21

La la la Superlega



Non ho nozioni giuridiche, di Borsa ne capisco quanto di astronomia molecolare e queste sono solo due considerazioni messe in fila in qualità di umile fruitore dello show-calcio.

Abbandonando per un momento il clamore delle ultime ore (fatale si tratti del solito abbaiare alla luna)...

Il Calcio gode di una audience che non ha nessun altro sport. Il calcio, sulla carta, è (o meglio, sarebbe) portatore di sani ideali: competizione, spirito di squadra, risultati che se li vuoi ottenere devi passare dal duro lavoro (allenamenti). Una metafora della vita per come comunemente intesa. Sulla carta.

In realtà, da tempo, a questi valori primigeni si sono sovrapposti robusti interessi perché di fatto è diventato un business molto redditizio. Per chi? Per i fruitori come me, costretti a pagare ben due abbonamenti (Sky e Dazn) per poter seguire le gesta (si fa per dire, visti i recenti alterni risultati) della squadra per la quale “tifa”.

Aggiungi gli “Sponsor”, leggi Aziende che trovano corretto investire dei denari in cambio di visibilità e consolidamento. Quasi che, al solo esser cuciti sulle maglie dei giocatori di tale squadra, ne corrispondano automaticamente sensibili aumenti di fatturati.

Aggiungi i “procuratori”, gente che non sfigurerebbe al posto dei battitori di un’asta da Christie’s. In pratica, come il lievito Bertolini, in grado di prendere sotto tutela le sorti di un giocatore per cercare di “ottimizzarne” il ritorno economico, e di lucrarne di conseguenza.

Aggiungi le pay-tv. Vuoi vedere i tuoi beniamini? Paghi. Finiti i tempi dell’adolescenza, quando dallo schermo in bianco e nero, debitamente in differita (le partite, tutte, si giocavano alle 15, la trasmissione avveniva un due, tre ore dopo) mammarai ti concedeva appena 45 dei 90 minuti di una partita, salvo, nella patria del Bignami, proporre una caritatevole sintesi (antesignana degli odierni highlights) commentata da giornalisti diventati anch’essi storia, reperto e sangue della declinazione del calcio in tv.

Aggiungi a tutto questo quadro (e come poteva mancare) un robusto impianto di Enti, Federazioni, con un’architettura cosi ben congegnata dall’aver saputo diventare, nel tempo, autorevole come le famose tavole della legge vendute a dispense sul Sinai. Una piramide di potere, un gioco di equilibri giurisdizionali da far impallidire la pù avveduta cupola mafiosa. E, aggiungo, di riflesso aumentando i commensali alla tavola delle spartizioni.

Ora, la presenza di Bibbie inamovibili nell’era della globalizzazione, nell’enfasi dell’economia di mercato, stona non poco. Ma come? Si plaude al liberismo, si brinda alla libera circolazione dei capitali, le borse mondiali sono interconnesse meglio dei nodi di un tappeto persiano e si tollera ancora la presenza di Moloch che pretendono di tenersi la torta tutta per se?

Era inevitabile, quasi già scritto nelle cose. Dalla licenza di quotarsi in borsa, dall’introduzione di meccanismi opachi (opachi nella loro, presunta, rigida applicazione) quali il fairplay finanziario, gli organi al vertice del business, vero e proprio “stato” nello stato, o meglio “sovrannazionale” visto l’orizzonte della loro influenza, pretendevano davvero di vivere ancora nel loro medioevo, denso  di privilegi e del trionfo dell’arbitrio?

Doveva succedere e quando successo negli ultimi giorni non ne è che la prova. Alla stregua di una qualunque assemblea degli azionisti, alcuni grandi club hanno lanciato (voglio credere ispirati da quei filantropi che si sono già resi protagonisti in passato di poco esaltanti risultati come il crollo di Wall Street nel 2008) a modo loro, una OPA. Andando a minare decenni di poteri stratificati, come un millefoglie, facendo saltare la “torta”, non più paghi della fetta a loro destinata da un Tribunale supremo poco incline all’idea di redistribuire in modo più democratico prim’ancora che brandelli di potere, risorse a dir poco appetibili.

Lo scontro è tutto qui e va letto come un naturale sviluppo del conflitto di interessi che è dietro ad una passione che, ha un bel dire Zeman, in ogni angolo del mondo, dove due tre ragazzini si divertono a giocare con una palla, lì è il calcio.

Non so come andrà a finire. E francamente poco interessa. Quando il sangue scorre nelle strade, esci e compra, recitava un vecchio adagio per lupi di Borsa. Un sentore quello si, e già da tempo, abbandoniamo presto l’idea che tutto questo si tradurrà in un qualche beneficio per i tifosi (la vera linfa vitale dalla quale provengono gran parte delle risorse, abbonamenti, merchandising, e pandemia permettendo, biglietti per gli stadi). 

E ora accomodiamoci in poltrona…


02/04/20

Conte Giuseppe, il sogno americano

Giuseppe Conte nato a Volturara Appula, l’8 di agosto del ’64.

Cosi recita il freddo incipit del sito del Parlamento. Con quella seriosità tipica dei cataloghi, stavolta umani, dietro le sparute generalità si cela tuttavia una figura che si fa fatica a scrollare di dosso l’aggettivo di fenomeno.

No, non ci interessa qui un ritratto in chiave politica. Sarebbe oltremodo scomodo a contenerne la portata, debordante come è, per come si sta trasformando giorno dopo giorno, diremo meglio sera dopo sera, nel palcoscenico dell’italica stirpe condannata in casa.

A dispetto di tutto ammettiamo subito questo: Giuseppe Conte è la versione riveduta e corretta del Sogno americano. Come nella migliore tradizione hollywoodiana con la quale siamo venuti su un po’ tutti, lui è l’eroe buono, lo sconosciuto al quale la vita ha consegnato una possibilità, più o meno come un pacco di Amazon.

Legale, ma fin qui niente di che, come i tanti che si sentono appellare cosi dai sempre più improbabili guardiamacchine in fase di parcheggio, "venga venga avvocà" devono avergli detto quando la schiera di anonimi quanto lui cittadini abilmente reclutati da un comico genovese l’hanno chiamato.

E chi non lo ricorda quando, dal cilindro di Mattarella, una mattina soleggiata del primo giugno di due anni è saltato fuori il primo Presidente del Consiglio che sembrava eletto con le modalità di un talent.

Un male? Affatto, il desiderio di novità incarnato nel voto di quelle elezioni si faceva volto, persona e di lì a breve personaggio.

Ha saputo venire fuori alla distanza, come un maratoneta della domenica, di quelli che tuttalpiù si piazzano ma il traguardo, costi quel che costi, lo tagliano. Ha resistito, uscendone elegantemente alla tempesta d’agosto, sulle onde procellose di mojito, rivelandosi il Capitan Findus della nazione, sempre via i buoni uffici del Colle.

Ed eccoci qui, in questa primavera italiana assurda. Attendendo le sue apparizioni come un Frizzi redivivo, impeccabile, con il suo sguardo rassicurante, la pochette che fa capolino dall’abito “buono di sartoria”, le sue piccole esitazioni del linguaggio, un abile amministratore del Condominio Italia che ha la capacità, dopo ore di mettere d’accordo gli inquilini litigiosi, col suo fare bonario.

Abbiamo osservato tutto questo consapevoli che nella soap-opera di ciò che è diventata la Politica Italiana negli anni, avevamo “bisogno” di un personaggio cosi: trasversale, nient’affatto anonimo, capace di sorprenderci tutti alla distanza, imparando in qualche modo a volergli anche bene.

E lui fa di tutto per aiutarci in questo. Compiacente quanto basta, “severo ma giusto” quando redarguisce i recalcitranti “evasori” stavolta non fiscali ma domiciliari, ammonendoli con lo spauracchio di “pesanti sanzioni” (Avvocà…ma chi le pagherà mai davvero?…non gira un euro).
Su Instagramm nascono profili di follower, stando alle statistiche è ben saldo su picchi di gradimento raramente uguagliati (c’è chi ce l’ha spiegato, in presenza di momenti di forte disagio, terremoti eccetera, è un moto spontaneo, si cerca inconsciamente di stringersi intorno ad una Guida, foss’anche, come nel suo caso, del tutto estraneo al supporto dei partiti, almeno, per come li abbiamo conosciuti.

Al netto delle considerazioni degli statistici, è un fatto che a godere di un momento cosi favorevole, per le sue fortune, sia qualcuno che con il suo linguaggio rodato da anni di aula (sia di tribunale che di università) abbia la capacità di farsi comprendere e dalla “casalinga di Voghera” come dal Dentista di Abbiategrasso, incarnando quello che infondo abbiamo sempre sognato: una persona capace di farsi comprendere quando parla, alla quale stringersi in un moto di simpatia o di semplice bisogno di rassicurazione.

Qualcuno insomma che abbia l’innata capacità di porsi davanti ad un momento come questo come quello al quale affideremmo volentieri le chiavi di casa, sicuri che, posto si potesse uscire in questo momento, non mancherebbe nulla al nostro ritorno. Cosa salvo rare eccezioni, al momento, poco condivisa dai suoi predecessori.

Ecco, già solo indagando questo ne saremmo contenti, comunque vada. Nulla di elegiaco sebbene, disposti come siamo ai facili perdoni, vedrete anche questa volta, “purché ci porti fuori” da ‘sto casino, gli perdoneremo volentieri le titubanze, le gaffe, i ritardi, pronti a rivalutare chi, rifacendosi anche bene retoricamente (è pur sempre la sua materia preferita) ha fatto tornare d’attualità i rimandi a Churchill, e ai suoi appelli, qui prontamente ridotti a quelli “dell’ora più gricia”.

Una versione riveduta e corretta, attualizzata ed espunta da tutto ciò siamo stati abituati a vedere fin qui. Un’icona pop, un Brian Ferry de’ noantri che, vedrete, sarà sicuramente in grado di sorprenderci ancora.
Altro che Zelig.


18/06/19

Dopo le dimissioni di Totti, qualche riflessione.


Dopo le dimissioni di Totti, qualche riflessione.
Ieri, 17 giugno si è consumato in circa 80 minuti di conferenza stampa l’addio di Francesco Totti dalla AS Roma. 

A caldo, c’è qualcosa che non torna. 
Diamo per acclarato l’intento di business del Presidente James Pallotta. In una logica aziendale, se le cose che ha affermato Totti ieri sono vere, qualsiasi responsabile di una società (non dico quotata in borsa ma appena appena capace di galleggiare senza voler “portare i libri in tribunale”) due domande dovrebbe farsele.
Analizziamo i risultati, mettendo da parte un momento quanto detto ieri da Totti. La Roma ha combattuto per anni in posizioni di vertice sia nel campionato “domestico” che nelle coppe, arrivando a lambire la finale nella scorsa stagione. Il management (immagino scelto dalla Presidenza) ha toppato la campagna acquisti-cessioni svilendo la squadra e prendendo giocatori non indicati dal tecnico (l’ex CT Di Francesco). Il giorno dopo l’eliminazione dalla Champions “sono volati gli stracci”. Via Di Francesco (colpevole di cosa?) e via Monchi (qualche responsabilità dovrebbe averla…) si è pensato che “stavamo bene cosi”. Tutti gli altri al loro posto. Se esiste un criterio di responsabilità, andava visto anche il ruolo di chi ha avallato e chiamato queste figure (soprattutto quella di Monchi) a gestire un giochino che è andato male.

Prima anomalia: si “sacrificano” queste due figure e ci si illude che tutto torni a posto. Strano no? Chi ha avallato la campagna acquisti-cessioni? Chi ha deciso che andasse cosi?
Torniamo a Totti. Ieri ha detto che il tecnico (Di Francesco) aveva indicato 5 giocatori. Ne sono arrivati altri, non richiesti. Anche qui, chi ha “deciso”?
In una logica puramente economica. Alla luce di quanto sopra, qualsiasi altra società avrebbe preso delle decisioni importanti, azzeramento dei vertici e rinforzo immediato della squadra per continuare a mantenere un “ranking” e un prestigio anche in vista dell’affaire-Stadio.

Lo Stadio. Da notizie di stampa, se mai si facesse, questo sarebbe comunque di proprietà del presidente James Pallotta e la società AS ROMA, “costretta” a pagare l’affitto ogni volta che dovrebbe utilizzarlo. Una questione non da poco. Il che vuol dire che forse, non ho idea di quanto “chieda” il CONI per l’affitto dell’Olimpico, ma sarebbe carino valutarne la reale convenienza (tenuto conto degli annessi e connessi: centro commerciale, centro direzionale ecc.). Citando solo di striscio che le inevitabili polemiche (e inchieste giudiziarie, inchiesta “Parnasi & Co” hanno portato alla luce: dialoghi surreali fra tecnici che si interrogavano sull’ampiezza degli svincoli dai quali accedere all’area dello Stadio e taglio drastico delle opere “a beneficio della collettività” volute in forza di un malinteso senso di convenienza…ossessionati solo dal contenimento delle volumetrie…ma questa è un’altra storia.

La domanda è: ma Pallotta ci fa o ci è? Tenere al loro posto coloro che ieri Totti ha amabilmente descritto come incapaci è segno di un sostanziale menefreghismo sulle sorti sportive della Società o frutto di una lungimiranza cosi acuta che ai più tuttora sfugge? L’unica modalità scelta da costui è stata una lettera all’indomani del recente “addio” di DDR (del quale stiamo ancora aspettando la querela promessa al giornalista di Repubblica che ha pubblicato indiscrezioni non proprio esaltanti nei suoi confronti).

Il comunicato di poche righe emesso ieri sera, non sappiamo se a firma sua o ispirato dal “board” è ancora più surreale se possibile. Arrivando a definire “fantasiose” le affermazioni di Totti circa un suo possibile ritorno in caso la proprietà del club passasse di mano, e usando  (strumentalmente) l’aggettivo “delicato” per l’argomento citando “fuori tempo massimo” la quotazione in borsa.
Si è detto che questo è il calcio moderno. Una torta che muove una quantità stratosferica di soldi. Difficile stornare la logica del tornaconto economico dalle sorti sportive (risultati) di una squadra.
Detta ancora più semplice, quando Ranieri portò allo scudetto il Leicester la parola più abusata fu “favola”. Ecco, nel calcio europeo questa parola assume tutto il suo significato semantico. Riuscire con pochi mezzi, con una squadra di provincia a “sbancare” un campionato come quello inglese dove ci sono squadre i cui presidenti dispongono di risorse finanziarie “illimitate” (emiri) è davvero una Favola.

Su tutto il resto conta l’assetto che queste grandi squadre si sono date, negli anni. Vere e proprie macchine da soldi. Attorno alla compra-vendita dei diritti tv, al giro delle scommesse, al merchandising girano cifre imponderabili.
La AS Roma, e qui un altro “metro” della statura del suo management, fino ad un paio di anni fa era 17esima nella classifica delle squadre italiane per introiti dal merchandising. Anche la definizione di uno sponsor ufficiale ha avuto un travaglio difficile. E’ lecito aspettarsi che da ieri l’appeal del  “brand” AS ROMA, avendo perso (e in che modo) un’altra sua “bandiera” sarà ancora più drammaticamente legato a risultati sul campo che, oggettivamente, non sono come si dice “alle viste”.

Una squadra da rifondare, un monte ingaggi da rivedere (alla luce dei mancati introiti derivati dall’eliminazione della Champions) qualche altra “dolorosa ma inevitabile” cessione in ossequio al “fair play finanziario” (e patetico averlo citato da parte di Pallotta come argomento a sua discolpa nella prima lettera ai tifosi inviata dopo l’addio di DDR).
Cosa ne sarà adesso? Purtroppo, anche a voler interpretare il comunicato di ieri sera in risposta alla conferenza stampa di Totti, non c’è molto da aspettarsi.

Un arroccarsi sulle proprie posizioni, una mancata presa di coscienza della realtà che anche alla luce del conto economico (posto sia questo l’unico argomento “sensibile” a Boston) non torna. Incapace come è di interpretare i sentimenti di una piazza (di una tifoseria) mai cosi apertamente ostile da quando ne hanno assunto la direzione.

E’ questo il punto da chiarire, se prevale la logica ostinata del tornaconto economico, qualsiasi Presidente da ieri ne avrebbe dovuto prendere atto e cominciarsi a preoccupare seriamente dei “disastri” combinati dalla dirigenza, o (ed è lecito sospettarlo) ha garanzie che a noi non è dato sapere, circa la realizzazione dello stadio, che travalicano qualsiasi “deleteria” conseguenza delle parole di Totti. In ogni caso un quadro a tinte fosche dove anche le parole in libertà di Totti ieri, per tacer dell’affaire DDR, di certo non contribuiscono a smuovere niente. Con buona pace di noi tifosi rassegnati a vederci spogliare, uno ad uno, le figure più rappresentative della società. Soldi ed affetti. Ragione e sentimento.
A Boston, evidentemente, non stanno a cuore né l’una né l’altro.

#dimissioniTotti #ASROMA