24/11/08

Report


Ovvero il giornalismo d’inchiesta.

Report ne ha fatta un’altra delle sue. Ieri sera è andata in onda una puntata dedicata al problema dei rifiuti a Roma (“L’oro di Roma”)..
Nel corso della puntata è stato inserito un “fuori-onda” nel quale un assessore regionale, con linguaggio colorito, si esprimeva circa l’ineluttabilità che al momento, a Roma, ci sia un’unica Azienda che in totale regime di monopolio, ha in carico tutto il ciclo rifiuti (smaltimento, incenerimento, produzione di energia dai rifiuti combusti).

Oggi, si apprende dai lanci d’agenzia, l’assessore in parola presenterà le dimissioni. Tralasciando ogni e qualsiasi giudizio di merito (che già basta il carosello di voci, sinteticamente riportate a commento della notizia: c’è chi si è svegliato oggi, chi ne approfitta per regolamenti di conti “politici, chi ancora rincara la dose contribuendo a sollevare una tale nuvola di polvere che quella degli inceneritori, al confronto, è impalpabile cipria), la domanda è: cosa è che fa più scalpore ? Che un servizio pubblico, assolva a questa definizione, mettendo mano a quello che manca nel paese: ossia il cosiddetto giornalismo d’inchiesta, o il fuori.onda stile striscia la notizia ?.

Parliamo dell’Italia, non degli USA. Lì, con il Watergate, hanno mandato a casa dei presidenti.
Da noi, Saviano a parte, la disciplina è in ribasso. Vuoi per l’assetto proprietario delle testate. Vuoi per un ceto di addetti ai lavori che sostanzialmente espropriato di una funzione che gli dovrebbe essere connaturata: quella di approfondire i fatti, svolgere inchieste, senza timori reverenziali per nessuna parte politica, di fatto nicchia o fa finta di non vedere.
Qualcuno sospetta che, via Report, si stia giocando una battaglia dai lunghi coltelli fra la sinistra radicale (dalle ultime elezioni sostanzialmente in carico al WWF) e la sinistra “riformista”.
La destra, dal canto suo, gode stando alla finestra, assistendo a questa lotta fratricida.

Un'unica considerazione. Proprio la disabitudine a questo modo di fare giornalismo (che invece, implicitamente è un sale per la democrazia, nella sua accezione più pura), dimostra che l’utenza non è preparata. Tanto circostanziata e corretta è l’analisi di una situazione (dati incontrovertibili: il regime di monopolio nell’affare rifiuti è sotto gli occhi di tutti), quanto maggiore è lo sgomento di chi lo apprende via schermi televisivi e si sofferma sull’implicita “macchiettizzazione” di un protagonista, non proprio di secondo piano.

Già in passato, ai primi di maggio, ad urne appena chiuse per l’elezione del Sindaco di Roma, andò in onda una puntata simpaticamente intitolata “I Re di Roma”, dalla quale si è appreso dei giganteschi interessi che hanno ruotato intorno al Piano Regolatore Generale, fra il ceto dei “palazzinari” e il potere politico del Campidoglio nonchè la portata mefitica del cosidetto "accordo di programma".

Ora, non so di che ufficio legale disponga la redazione di Report. Immagino che avrà il suo bel daffare, con tutti i vespai che solleva, quando alza il coperchio su realtà che ci riguardano tutti. Quello che so è che a fronte di queste inchieste, che come si diceva una volta “non guardano in faccia nessuno”, proprio gli addetti all’informazione dovrebbero porsi quest’elementare domanda “ma io come me lo guadagno il pane ?”.

21/11/08

Miglior sesso, siamo inglesi

(o Sex, non in the city, ma into the books)

Succede anche di questo.
L'intento è nobile, la letteratura ha bisogno di liberarsi dai cattivi esempi. Quali ? Quelli di quanti, scrivendo, si sono macchiati dell'incapacità di saper descrivere l'atto sessuale, o lo hanno fatto in modo cosi insulso da meritarsi la messa al bando (con l'intento propedeutico, di evitare in futuro il ripetere tali cadute di stile).
Il sesso, il grande tabù viola, che nelle pagine dei libri, sta alla capacità di chi scrive evitare venga banalizzato, nella sua crudezza, a mero atto fisiologico.

Ecco quindi che un'autorevole testata Inglese (Literary Review) giunge addirittura a formulare un premio omeopatico, “le peggiori pagine di sesso mai apparse su un libro”. L'anno scorso se l'è aggiudicato, postumo, Norman Mailer, quest'anno il giudizio è sospeso, almeno fino al prossimo 25 novembre, in gara nomi da milioni di copie, come Paulo Coelho e un certo Campbell, già consigliere di Tony Blair (l'articolo adombra un suo coinvolgimento con la faccenda dei falsi top secret circa le armi di distruzione di massa in Iraq) e già scrittore con un passato di storie porno per le riviste del settore. L'organizzatore, in merito, ha dichiarato : «Serve per richiamare delicatamente l'attenzione degli autori e degli editori sulle scene di sesso crude, prive di gusto, spesso superficiali e ridondanti nei romanzi moderni. E per scoraggiarli».
Ora, ipotizzando un premio al contrario (dedicato alle migliori, invece) la mia personale classifica va:
al primo posto: Gustave Flaubert, per Madame Bovary.
Motivazione: la migliore descrizione, è quella che non c'è. Che lascia alla fantasia del lettore, ipotizzare (senza molti dubbi...e qui sta la bravura) cosa stia avvenendo nella carrozza nella quale la signora Bovary va a spasso col suo amante. Lo scrittore si attarda a descrivere il paesaggio, l'itinerario che compie la carrozza, ma si guarda bene dallo spendere una sola parola per descrivere cosa sta accadendo al suo interno. Più erotismo di questo ?


Al secondo posto: un racconto di Harold Brodkey intitolato «Innocenza» (nella raccolta Storie in modo quasi classico, Mondadori 1991).
Motivazione: Qui, al contrario, c'è il festival dell'estensione. La ridondante descrizione di un cunnilingus che si protrae per una ventina di pagine. La cosa strana è che nonostante la prolissità, l'esperimento narrativo riesce, ma per una sorta di assuefazione. Alla fine il lettore ne esce non già con un misto di nausea e/o noia, ma con la rassegnata constatazione che il concetto di tempo dilatato è proprio alla base della narrativa.

Something else ?

Villari vs Zavoli, una telenovela

In totale silenzio, sulla blogosfera, la vicenda definita “surreale” della nomina alla Direzione del Commissione parlamentare di vigilanza sulla RAI.

Piccolo passo indietro (ma illuminante). Semanticamente la parola “vigilanza”, accostata a “parlamentare”, definiscono ambiti che resta difficile vedere applicati, nel novero delle democrazie occidentali, al concetto di libera informazione..E svelano, tutte insieme, le anomalie del sistema italiano.

Intanto, la definizione di RAI, servizio pubblico. Che genera, o dovrebbe generare, informazione.
Non che non lo faccia, eh. Solo, un po’ a modo suo. E questo da il senso della lotta all’ultimo sangue che si sta svolgendo, nel silenzio totale dei blog radical-chic nostrani.

Una pagina triste. Che ricorda la vicenda di Sisto V. Dato per malato, durante il conclave, venne investito comunque dell’insigne carica papale, contando sul suo precario stato di salute, e quindi, implicitamente (e questo dev’essere un vizio che tuttora si perpetua in forza di questo retaggio) prendendo tempo e contando sull’assottigliarsi di quest’ultimo, stante le condizioni di salute del predetto. Il pontificato di Sisto V durò, cosi ci dice la storia, cinque (immagino lunghissimi) anni.

Non conosco Villari. Di Zavoli so che è stato un discreto dirigente RAI. Sulla sceneggiata delle dimissioni, se proprio ce n’era ancora bisogno, stanno facendo tutti, ma proprio tutti, una pessima figura. Quello che alla fine rimane, è che da questa melma del potere non se ne esce.Con buona pace dell’informazione. Che in questo paese, solo per gli illusi, può ancora dirsi libera.

20/11/08

I mitici anni '80

cazzo faceva questo negli anni '80 ?

L'intro è felliniano. Il resto è da incorniciare come l'esempio di una L.A. da bere

Lunga vita a Randy "pocavoce" Newman.

19/11/08

Successione di punti (non è una retta ?)

Cechov dice che bisogna scrivere quello di cui si conosce. Andato volontario su un'isola adibita a colonia penale, e sostatovi per diverso tempo, convenne che l'aver conosciuto ogni singolo residente, gli avesse regalato l'opportunità non già di parlarne, ma di parlare delle proprie impressioni, del come aveva passato il tempo li, delle sensazioni che gli aveva procurato scambiare parole con loro.

Una rivoluzione copernicana, e insieme un punto di vista dignitoso. In altri termini, la realtà da un piano meramente oggettivo “cronicistico”, passa, filtrata attraverso la propria ottica (l'insieme delle esperienze che determinano lo sguardo soggettivo) riprende il sopravvento, come in una lotta atavica. Miglior servizio, per la narrazione, non esiste.

Con tale “focale”, la storia arriva a noi, lettori di più di un secolo dopo, intatta. Senza nessun infingimento. Almeno, lo sappiamo: sono le considerazioni di Anton Cechov. Punto.
Approcciare la voglia di scrivere un romanzo. Essere consapevoli di quello che potrebbe esserne l'umore. Ma atterriti dal confrontarsi con cose tipo una trama (il più possibile avvincente). Vorrei invece prendere a prestito la grande offerta di mezzi che quest'epoca ci regala. L'ipertesto, la possibilità di inventare un tappeto musicale che faccia da sfondo, alla narrazione. Una scrittura contaminata dalla seduzione dell''immagine. Capace di renderla senza ricorrervi. E donandola ai propri lettori, dotati di fantasia.

Cosi, per scherzo, immaginare che un capitolo possa essere corale. Raccontando delle visioni di un gruppo di lettori che leggono, hanno letto, lo stesso testo. Alla fine ciò che ne esce è uno splendido corollario di tutto ciò che è in grado di sollecitare una storia. Potrebbero farlo i personaggi stessi, rimediando alla difficoltà di reperire persone, amici che si prestino. E in tal caso, dovrebbe esser molto bravo lo scrittore a porsi difronte alla narrazione (che è sempre sua) come non fosse tale. Guardarla, dopo averla depositata su un piano, da tutti i punti di vista possibili. Esercizi da scuola di scrittura. Come quando ti dicono di narrare la storia di un vino, partendo dalle sensazioni del bicchiere che lo contiene. Cose cosi.

Allora, narrare del proprio quotidiano, sforzandosi di volerci leggere il midollo spinale di una poesia che stenta ad esser individuata, sotto il peso mortifero dell'abitudine. La meraviglia che genera il collegare cose fra loro apparentemente sconnesse. E la bravura sarebbe farla venire fuori senza declamarla, senza dichiararla, ma per semplice accostamento di piani narrativi. Una specie di reazione di fisica. Un campo di forze. Compiute, ciascuna, per i fatti suoi, ma che si dotano di un potere particolare nel caso in cui confliggono. Le parole, per dirlo, che a quel punto escono da sole. Come quando, la profonda convinzione e conoscenza di un argomento, te ne fanno declamare senza dubbio alcuno, la sostanza con una facilità estrema. Con la leggerezza di un ballo.
Fare appello alla geometria. La descrizione di punti. La carreggiata di una consolare che parte da Roma, intasata di vetture, spesso, con una sola persona a bordo. Il pretesto del maltempo a giustificare porzioni di tempo esagerate, sprecate per percorrere pochi chilometri. Tutti insieme, ma ognuno, rigorosamente per i fatti suoi. Con la sua musica, la sua stazione radio, i suoi colloqui al telefonino, i soli suoi pensieri. C'è la dolente percezione della moltitudine, intrisa di tacita rassegnazione. La descrizione di una somma zero. Il cumulo di energia psichica che si genera in questi non luoghi, moderni surrogati delle antiche agorà. Insieme il trionfo della mobilità, celebrato col suo peggiore corollario: lo sperpero del tempo, in luogo del suo guadagno, ottenuto a bordo di un veicolo capace di indirizzarci dove vogliamo. Disporre di una macchina diabolica che sia in grado di secernere, come da un enorme frantoio, la mole dei pensieri di tutti gli occupanti di queste distese di lamiera gommata che si dipanano dalla capitale, nelle prime ore del pomeriggio, cosi come all'alba. Avresti cosi modo di capire, che il livello di rassegnazione a sostenere una coda, passa dal desiderio atavico di mobilità, dalla necessità di indipendenza, dalla impossibilità di ricorrere ad un mezzo pubblico, non solo laddove questo latiti o sia insufficiente. Ci sono i modelli delle auto. La loro varietà testimonia la volontà di ciascuno di esercitare il suo gusto, in chiave di grandezza, modello, finanche colore della carrozzeria. La scelta dettata da un insieme di variabili (capacità di sostenere il costo d'esercizio in rapporto al proprio reddito), dal desiderio di apparire, ricorrendo ad una variante del ruolo che giocano i vestiti. Cosi ci hanno educato a venire su, regalandoci la convinzione di esser noi a scegliere. Prendendo per buone le lusinghe subliminali della pubblicità. Ma resta il fatto che su cento metri di coda, in quest'ultimi tempi, è aumentato a dismisura il numero di modelli. E questo può inficiare la teoria qua esposta. E' la quantità dell'offerta, come sempre, a determinare la varietà delle scelte. E' anche estremamente probabile che spingendo all'estremo l'offerta nell'ottica di enfatizzare la personalizzazione, si potrebbe assistere, nel volgere di pochi anni, ad una dilagante affermazione del modello individuale. Laddove questo, prima ancora che dar da mangiare ai sociologi accorsi a comprenderne i motivi, potrebbe semplicemente denunciare una comunione fra il gusto individuale e la modalità costruttiva de-serializzata.

La capacità di comprendere tutto questo è da considerarsi una conquista dell'uomo libero del prossimo futuro. La successione di punti. Il festival dell'individualismo che si inoltra, come un fiume in piena, nelle pieghe della vita di tutti i giorni, sulle strade.
Dove mi ritrovo adesso. Sotto una pioggia battente.

17/11/08

La bellezza del blues.


Venerdi sera, scoperto per puro caso, girando sul web, si è esibito a Roma, Bernard Allison.
Conosco quest’artista da quando, per dar retta all’insana passione di scovare cover di brani celebri mi sono imbattuto, via emule, nella sua versione di Tin Pan Alley.

Tralascio (ma mi riprometto di tornarci) sul valore intrinseco del brano (intendo, proprio la storia di come e quando è stato scritto) che meriterebbe un post a se. Voglio solo precisare che, cosa che capita sempre più raramente, m’ha stregato dal primo ascolto.

Ho le orecchie devastate da sonorità blues. Ma il tocco di B.A. mi ha stregato. Dotato di rara pulizia, ho cominciato a cercarlo, negli striminziti ed angusti “angoli del blues” dei negozi di musica (Piero confermi ?) cosi come sulle bancarelle dell’usato, e a maggior ragione dal web.

Allison dal vivo, con queste credenziali, era spettacolo assolutamente definibile “da non perdere”.
E cosi è stato.
Il luogo che ha ospitato il concerto (http://www.stazionebirra.biz/), nel quale non ero mai stato, si presenta caldo, arioso. Per accedere alla sala, dove sono i tavoli (visto che si può comodamente mangiare mentre si ascolta musica) si transita vicino a dei macchinari che la producono proprio, la birra.
Nella grande sala, sovrastata da carri ponte, adeguatamente riadattati ad elementi d’arredo per sostenere la possente amplificazione (zero totale, o quasi, di distorsione), prendono posto un migliaio di persone circa.

A sorpresa si aggiunge sorpresa, giacchè, ironia della sorte, ho potuto appurare che il deus ex machina di tutta la faccenda è una mia vecchia conoscenza (dai tempi del liceo…).

Allison arriva sul palco, preceduto dal gruppo composto da : sax e percussionista, bassista, seconda chitarra (notevole), tastierista (senza parole: anche se lui le parole le maneggia: e infatti ha scritto diversi brani per un altro grande mostro sacro: Johnny (Kid) Lang, e un batterista che evidentemente era sovralimentato a duracell (non è stato un attimo fermo dall’inizio alla fine).
E’ dinoccolato e inforca una chitarra blu elettrico, dalla quale comincia a fare uscire di tutto.

Brani dall’ultimo cd (che il bravo fratellino m’ha portato fresco fresco dagli Usa giorni fa), ma anche dal suo repertorio e soprattutto, tante, tante cover.

Il pubblico è in trance, la band macina ritmo, spaziando dal blues, al funky, a brani spiccatamente rock. E’ un torrente in piena. La band si diverte, si alternano gli a-solo, tutti, ma proprio tutti, ad un livello di qualità apprezzabile. Se ha un difetto è la tendenza al prolisso, ma convengo che è tipico dei concerti live, quello di estendere e reintepretare al momento i brani, leggendoci dentro il divertimento in luogo della fredda scansione degli stessi, più tipica dello studio di registrazione.

Alla fine, Allison scende dal palco (non senza aver dedicato prima commosse parole in ricordo del padre, il mitico Luther), e comincia a giocare col wha wha con i bambini (che a riprova che il posto è un locale “per tutti” affollano i tavoli), come in un grande sabba. Trovo il tempo per stringergli la mano….”Hey man” mi dice, sorridente.

Un grande.E una gran bella band.
Buon blues a tutti.
risorse: link al sito web dell'artista: qui

14/11/08

Copiatelo, ma davvero.


Scalpore (ma poi è il termine esatto ?) sta suscitando un questionario che il “Presidente eletto” (fantastica come definizione) Barak Obama ha inviato a coloro che intendono ricoprire incarichi di medio-alto livello nella nuova amministrazione che sta allestendo in vista dell’investitura ufficiale prevista per il prossimo gennaio.

Le domande vertono su una serie di aspetti e sono sommariamente riportate in questo articolo.
L’intento, giudica l’autore dell’articolo, è oltre a fornire e dare prova di trasparenza assoluta circa i propri comportamenti sociali, anche quello di svelare eventuali rapporti con le lobby.

Ora, alla luce di come stiamo messi da noi, coloro che si sbracciano ad attribuirsi la palma dell’esempio (tutto italiano) dovrebbero umilmente provare a fare un esercizio analogo.
Ridurre alla fame gente come Gianantonio Stella o Marco Travaglio, riportando le cose sotto l’egida dell’efficienza e non del pecoreccio “tengo famiglia” che è duro da estirpare dai patri lidi.

Cosi, galantuomini come i palazzinari romani, ai quali va il nostro commosso ringraziamento per lo sperpero di tempo impiegato (soprattutto in graziose giornate di uragani come queste) per transitare su arterie obsolete e strozzate dal risultato della benevolenza urbanistica del Comune di Roma (attuale e pregressa, beninteso), si troverebbero a dover competere sul mercato senza “ciambelle di salvataggio” che in luogo di garantire “corsie preferenziali” ad interessi privati, metterebbero al centro, per una volta, gli interessi “pubblici” (della collettività) .

Un’utopia ?Forse, ma stiamo a vedere. Dallo stile di lavoro di quest’uomo dovremmo aspettarci davvero una lezione. Che meditino i suoi paladini locali (di oggi e di ieri).

12/11/08

Uomo nel buio, di Paul Auster


Poi, un giorno, bisognerebbe fare un discorso sul fascino perverso di Fabio Fazio. Intendo sulla capacità subliminal-prescrittiva che il volere scrittori di fama, in studio, facendogli ad arte domande sia sulla loro personale visione della vita e “vistochecisono” anche della loro ultima fatica.Cosi ho ceduto e qualche settimana fa, proprio a seguito della visione della trasmissione ho preso questo testo. Conoscevo Auster per aver sfogliato la sua triologia su NY. L'utilizzo del verbo sfogliato non è casuale. Non l'ho mai completata. Un giorno, forse, lo farò.

Uomo nel buio, invece è un romanzo breve. Uno di quelli che, a vederli, ti dici....questo me lo sparo in un pomeriggio (è nota la mia idiosincrasia per i romanzi, di conserva, prediligo le raccolte di racconti). Cosi è stato.


Auster è un furbone. La cosa che mi resta dopo la lettura è l'ammirazione per come sa padroneggiare la trama, fottendosene di schemi imposti. Alludo alla struttura narrativa. Da subito si dispone su due piani. C'è un uomo anziano, vedovo, vagamente paralizzato, che soffre d'insonnia, in una casa abitata insieme alla figlia e alla nipote. E' un giornalista-scrittore e oltre a vedere durante il giorno film a ruota continua con la nipote, sul divano, la notte per ingannare il tempo, ipotizza una storia parallela.


Acute molte sue critiche su diversi capolavori cinematografici e insieme, molto bella questa definizione "I libri ti costringono a contraccambiarli con qualcosa, a esercitare l'intelligenza e la fantasia, mentre un film si può vedere - e anche godere - in uno stato di passività inerte". I contorni non sono definitissimi. Il lettore è indotto a credere vivano entrambe di vita propria e procede con curiosità. Il colpo di genio arriva a tre quarti dalla fine, quando alla stregua di un direttore d'orchestra fa terminare la storia parallela (una presunta guerra civile fra gli ormai ex stati uniti americani), e “ripiomba” nel quotidiano (che non ha mai abbandonato del tutto, intercalando porzioni di narrazione, anche durante la descrizione di quello che risulta un qualcosa a metà fra un incubo e un canovaccio, ricco di spunti narrativi tali da conferirgli pari dignità, che è il sogno).
Mestiere, mica è da tutti mettere in piedi una cosa cosi e pretendere di farla franca. Eppure Auster ci riesce, in virtù di una prosa scorrevole e sussurata, Fa finire il romanzo in una salsa di rimembranze, nell'ordine, sulla guerra (stavolta quella vera) dalla seconda guerra mondiale, al conflitto in Iraq con tanto di descrizione della decapitazione dell'ex fidanzato della nipote, una scena che si tiene in forza del fatto che è capace di non cadere in un banale grand-guignol, ma rimandando invece, a tutta la banalità del male) e ancora sulla ex moglie, ( degna di nota questa definizione "non voglio credere che il divorzio non sia una cosa crudele. Dolore indicibile, atroce disperazione, rabbia diabolica e nella testa una nuvola costante di tristezza, che a poco a poco si trasforma in una specie di lutto, come se stessimo piangendo una morte"), colorando di malinconia la rapida discesa verso la fine del romanzo.


Che dire ? Volendo infrangere uno dei comandamenti della lettura che recita che non va mai fatta la psicanalisi di un testo (e di conseguenza, del suo autore) è difficile non leggerci un senso di angoscia, vagamente rappreso, qui dominato, ma che sottende evidentemente l'universo creativo di molte delle opere sfornate negli Usa negli ultimi tempi. Tento questa analisi mettendo insieme la tematica de La strada, di Mc.Carthy, il film Io sono leggenda, e buon ultimo anche Wall-e. Insieme sono l'espressione di un disorientamento, preludio alla grave crisi economica che si sta vivendo, e in quanto tali, anche se involontariamente, ne rappresentano un monito presago con un tre per cento di speranza.

Einaudi,2008 trad. Massimo Bocchiola €.17
risorse: sito Paul Auster (in inglese): qui

podcast della puntata di Che tempo che fa con l'autore: qui

08/11/08

Caro Signor Capote, di Gordon Lish


Ho finito di leggere da poco, “Caro Signor Capote”, di Gordon Lish.(Nutrimenti ed. €. 16,00). Non ho mai letto nulla di suo prima. L'ho preso perchè citato nell'articolo che ha dato il la per scrivere quest'altro pezzo.
Difficile mettersi a leggere senza ricordare che GL è stato, anche, l'editor di Raymond Carver. Ma nulla, in questo testo, rimanda lontanamente a Carver. E' un testo “scomodo”. Una eterna, lunghissima lettera, di un uomo che sostiene di aver fatto fuori con una pugnalata (Paki è il nome dell'arma) nell'occhio sinistro ben ventitrè donne.

La lettera come si può evincere agevolmente dal titolo è indirizzata a Truman Capote, nell'intento di sottoporgli “il best-seller” del secolo, visto che all'estensore sono noti i precedenti di Capote, con il suo celebre “A sangue freddo” (e al quale, nella scelta del destinatario, preferito a Norman Mayler, va indirettamente la stima del serial killer).

E' un romanzo strano. Intanto la lingua. Col procedere delle pagine si viene ipnotizzati dal lessico ripetivo, denso di tic, modi di dire, luoghi comuni, di cui è intrisa la cultura di quest'uomo medio americano, cresciuto a tv, impiegato di banca (da noi, abbiamo Avoledo che sta degnamente rappresentando coi suoi personaggi la categoria, che dev'essere una miniera, narrativamente parlando).Una fatica bestiale venirne a capo. La prosa dilaga, si affastellano deja-vu, continui flash-back, in quello che può essere definito il progressivo disfacimento di una mente normodotata, verso pulsioni maniaco-depressive, e grande è la capacità di Lish, di non voler frapporre nulla, ne delle comode aree di sosta, per il lettore, nelle quali rifiatare, ne contestualizzazioni che ne smorzino il ritmo. Forse, le uniche pagine, a dare respiro sono quelle a sfondo sessuale, nelle quali l'autore della lettera, ormai autoconvintosi della benevolenza del destinatario, si lascia andare a ricordi di incontri piccanti con una ragazzina e poi con la mamma di lei, vagamente alcolizzata.

Porti a termine, con una certa fatica, le 188 pagine, per poi lasciarti assalire dal dubbio che non sia vero niente. Che il tutto rappresenti un tentativo originale di auto.promozione, dell'autore, che arriva a millantare una serie di delitti per ingenerare curiosità in Capote e catturare la sua benevolenza per chissà quale impresa letteraria. Uno scherzo, ben confezionato d'accordo, ma che sostanzialmente non lascia e non toglie nulla di nuovo nel panorama della recente narrativa statunitense.

Da leggere quando si è soli, in casa, hai il raffreddore e sei stramazzato sul divano, intontito dai farmaci, fra un sonnellino e l'altro.

07/11/08

Portfolio (1)




Personaggi
Jean Kurt Husky, bassista degli Heaven's crakers.
Ha inciso, negli anni, dei veri e propri capolavori di blues. Vanta diversi Grammy's.
E' diventato famoso, oltre che per le sue scale pentatoniche (qualcuno ha azzardato il paragone con il compianto Jaco Pastorius) anche per la sua passione per i cani razza pitbull.


“Amo trattenere i miei ospiti” ha detto a proposito del suo proverbiale senso dell'ospitalità.

risorse: link al sito ufficiale della band: qui

06/11/08

Un giorno qualunque, del 2020

sottotitolo ("La strada" de noantri).

La pioggia batte insistente sulle stecche metalliche della persiana. Non è ancora giorno.
Nella penombra della stanza, girandomi nell'enorme letto vuoto, cerco di trovare a tentoni l'antifurto. Lo trovo, spengo l'allarme mi alzo.
Percorro a memoria i pochi passi che mi separano dal bagno. Alzo la tavoletta. Dopo, schiaccio il bottone dello scarico. Torno in camera, prendo la pistola, scendo per farmi un caffè, in cucina.
Accendo il fuoco, trovando dei legnetti secchi che ho messo ad asciugare davanti ad una finestra socchiusa. Da fuori arriva una lama di freddo, ci saranno 7 o 8 gradi al massimo. E' novembre, solo che lo è per tutto l'anno.
Accendo la radio. Il bollettino del tempo non promette nulla di buono. Tempesta di smog e sabbia, sarà un altro giorno anche oggi. Una luce grigia si impossessa del cielo. I pochi uccelli, tacciono all'arrivo del suono degli spari, dai quartieri vicini.
La porta è sprangata. Le persiane corazzate. Le bande, le gang di rumeni e molisani alleate, vogliono il controllo della città. Alla radio, Frank Sinatra canta una lungimirante Fly me to the moon. Mi commuovo. Guardo la gatta dimagrire giorno dopo giorno. Penso a come potrebbe essere in casseruola. Verso mezzogiorno, l'ora di massima luce della giornata, smuovendo un po' di terra, nell'orto, proverò a tirar fuori quattro patate, quelle che i rumeni non avranno ancora portato via, entrando nottetempo nel giardino.
Sono indietro di dieci mesi col pagamento del mutuo. La macchina è ferma in garage, senza un goccio di gasolio nel serbatoio. L'ultima volta che, protetti dalla forza pubblica, due ragazzini magri come zombie, in divisa, hanno tentato di notificarmi lo sfratto, ho esploso un intero caricatore per aria. Da allora, non li ho più rivisti.
Sono allo stremo delle forze. Passo le giornate sbarrato e leggo. Leggo di tutto. Sono tutti i libri che ho comprato e mai letto. Ho già stilato una sorta di classifica di quelli che dovrò rileggere, quando li avrò letti già tutti. Ho autonomia ancora per qualche mese. Mai come in questo caso non rimpiango di aver speso i miei soldi cosi. La televisione è inutilizzabile. Sebbene alimentata da una specie di pannello fotovoltaico, trasmette solo notiziari in rumeno, nemmeno sottotitolati. L'altra mattina l'ho accesa, perchè avevo voglia di novità. Quando ha finito di leggere le notizie dal mondo, ho chiesto all'ologramma della speaker, in un tallieur niente male e con un bel culo, se aveva nulla in contrario a farmi un bel pompino. Gli ologrammi non rispondono, cosi dopo ho sintonizzato sul web 14.0 e mi sono masturbato.

Verso l'ora di pranzo hanno suonato alla porta. La solita banda di ragazzini sciacalli. Entrano con la scusa di chiederti un po' di roba da mangiare. Tu cedi, e quelli ti mangiano a te, dopo aver spogliato la tua casa, ovviamente. Cosi ho sprecato altre 5 o 6 pallottole, tanto per dargli il benvenuto ed esser sicuro che non avessero dubbi circa il livello della mia generosità.
Ho letto tutto il giorno. Dumas, e poi Potok, e i due volumi di Colombati (Rio) che ho comprato due volte (la seconda volta perchè, nel mio disordine, avevo dimenticato dove era andata a finire la prima copia, ma questo accadeva tanti anni fa).

I Rom e i broker di borsa sono l'aristocrazia di ciò che resta del paese. Speculari, gli uni agli altri si sono divisi la torta, o meglio, ciò che rimane di essa. Da lontano, sento che sparano ancora. Le case qui intorno sono tutte ormai vuote. I pochi vicini, sono cosi lontani, che bisogna camminare due ore, nel fango, e guardandosi le spalle, magari solo per condividere un te, con qualche biscotto fatto in casa. Non ho più zucchero, mentre loro ne possiedono un bancale, trafugato da un magazzino di un Ipergross, durante una razzia. A volte me lo regalano. Ma ormai ho imparato a farne a meno. Il caffè lo prendo sempre amaro.

Anche stamattina è cosi. Solo, che cazzo di strani pensieri, eh !

05/11/08

Il manager ed il netturbino

N.Y. 11 sett.2001
Obama è il Presidente. Si, con la P maiuscola, come si conviene per l’importanza del rango.
L’America. Anzi gli States, come sbrigativamente, e affettando dimestichezza con l’altra sponda dell’oceano qualcuno li chiama, sono gli stati Uniti d’America.

Oggi a Roma fa caldo. E’ un sole irreale, dopo il nubifragio di ieri. Le solite cose, strade allagate, ieri sera la A.S. Roma ha strapazzato il Chelsea, stamattina un est europeo in stato alterato ha investito una dozzina di persone ferme in attesa di un bus, guidando una BMW. Tutto come al solito ?

No, oggi è una giornata speciale. E’ come il 12 settembre, di tanti anni fa. Anche allora, allibito, ero rimasto in casa, c’era il sole, ho stampato la copertina in pdf del corriere della sera (che ora campeggia sulla scrivania) con le foto irreali, da fumetto di fantascienza, delle torri in fumo.
Stamattina ho sentito non so quante volte il discorso di Obama, nello stadio di Chicago.

L’America sono gli occhi spaesati di quel netturbino, in divisa, che si gira, di scatto, appena si ode lo schianto del primo aereo sulle twin towers. L’America sono le smorfie di Obama alla fine di ogni sua frase, nel discorso che ha tenuto stanotte.
L’America è un modo di sentire. L’America è il cimitero di Anzio, con le sue lapidi bianche su un prato all’inglese curatissimo. L’America sono i ragazzi morti ad ogni latitudine, per consentirmi di uscire, la mattina, compiere una serie enne di gesti abituali. L’America, da stanotte, ha ripreso, nell’immaginario collettivo quel ruolo che da tempo le era sfuggito di mano.
Non la voglio far troppo rosa. Dal manager fotografato con la faccia triste, cartone in mano, che esce dando le spalle, in una grigia giornata, all’ufficio della finanziaria nella quale ha lavorato, all’ultimo dei netturbini di Detroit (e fra questi anche stimati bluesman, in privato), una storia per fotografie.

Non so cosa rappresenti agli occhi di entrambi. Ma anche nel gesto col quale John braccinecorte McCain ha zittito i suoi fan, nel paludato albergo nel quale ha celebrato, prim’ancora che la propria sconfitta, la consapevolezza che il suo rivale gli ha offerto un’occasione unica.
Quella di ribadire che dietro all’affermazione “questo è il paese dove tutto è possibile”, c’è un comune sentire, la disponibilità a lavorare insieme.

Adesso aspettiamoci il desolante teatrino dei nostri opinionisti, meglio ancora, dei nostri politici.
Che abbiano un rigurgito di coscienza, almeno. Tacciano, e riflettano su cosa manca davvero in questo paese. Nel paese delle caste, dell’io mi faccio i cazzi miei, della corruzione dilagante.
E’ una lezione, che già solo per il fatto di essere accaduta, potrebbe rappresentare, se interpretata nel giusto modo, un esempio.

Di qualcuno che sappia interpretare questa lezione, anche da noi, di questo c’e’ bisogno.
Ma in silenzio, per favore.
Che di proclami vuoti ed inutili ne abbiamo già piene le palle.

Buon lavoro, Presidente. E, di nuovo, buongiorno America !

04/11/08

L'insopportabile leggerezza del palinsesto.

Succede che per tenersi aggiornati, dopo la scelta di non comprare più quotidiani (il fuoco, nel camino si accende anche con altro), uno limiti la “spesa” al sabato per Tuttolibri (su La Stampa) e la domenica, per l'inserto de Il sole 24 ore. Hanno entrambi lo stesso oggetto: i libri, e in senso lato la cultura.

Succede che a firma Als Ob, ci sia un articolo, sulle ultime pagine (va detto che l'inserto del quotidiano in rosa è piuttosto corposo) che volendo essere leggero, o “di colore” come non amano dire in America in questi giorni, si occupi di televisione (non a caso, visto che l'occhiello recita...”telesponde”).

Ora, l'articolo in parola, prende in oggetto la programmazione pomeridiana sulle reti Rai, in particolare un programma che viene trasmesso in quella fascia e che ringraziando iddio, non conta certo gli indici d'ascolto dei tiggi né tantomeno quelli della cosidetta “prima” o “seconda” serata.
L'ironia con la quale l'autore si accanisce contro la soubrettina che lo conduce, nonché sulla vacuità dei temi trattati (nella puntata in esame, quello fra le coppie con la lei più “anziana” del lui) se pure in grado di strappare sul momento, un sorriso, di certo induce a più profonde riflessioni.

E la riflessione è questa. Deridere tali programmi è come sparare sulla crocerossa. Ho sempre provato curiosità nel voler comprendere le ragioni, palesi o recondite che siano, che portano chi è responsabile della programmazione a questo tipo di scelte. Che tipo d'Italia ha in mente? Dove si è formato la sua opinione, sulla scorta di quali dati o se sono nozioni dirette, da quali fonti desume che il propinare simile paccottiglia, prima ancora che esporlo alla severa e ironica critica del sig. Als Ob di turno, possa effettivamente incontrare il favore (si legge audience, è pane per gli sponsor) dei telespettatori che a quell'ora (ma chi sono ? Studenti svogliati ? Casalinghe ? Pazienti d'ospedale ? Detenuti ?) si trovano (loro malgrado ?) davanti alla televisione ?

E' importante saperlo. Cosi come sarebbe importante capire che dietro al birignao per i congiuntivi sballati di Carmen Di Pietro (no, non è parente), c'è tutta la chiave di lettura del paradosso italiano.
Fior fiore di intellettuali che, forti del loro snobismo, dall'alto dei pulpiti tuonano contro lo scadimento di quella che pure, a livello di canone, dovrebbe essere la tivu pubbblica (si, con tre b) che tollerano questa decadenza del costume con stizziti corsivi al vetriolo (quando e se se ne accorgono: difficile che a quell'ora siano davanti ad una tivu pure loro...) ma che sostanzialmente con il loro fare d'avanguardia, si guardano bene dallo sporcarsi le mani, chiedere e pretendere di aver voce in capitolo nella composizione dei palinsesti, che pure, trattandosi di rete pubblica dovrebbe interessarli sicuramente di più e meglio di quanto propinano quelle private (o commerciali, come si amava dire una volta, in ossequio ad un distinguo che, alla luce di come stiamo messi oggi, non ha più ragione di esistere, o è fortemente compromesso).

La faccio breve: finchè le uniche intelligenze in circolazione non prenderanno di petto la faccenda dell'auditel, mettendo fine a questo scomodo “convitato di pietra” nelle riunioni di redazione, che tanti danni ha fatto e continua a fare nelle coscienze del paese, aspettiamoci che l'unico vero orizzonte praticabile sia quello, tutto aventiniano e tuttosommato tipico di tanta intellighenzia a gettone che alligna nei posti chiave culturali del paese, di aver materia prima a disposizione per scrivere alla domenica, sul giornale della confindustria, spiritosi quanto inutili articoli di costume, capaci dello stesso impatto che può avere una polaroid.

Hanno talmente preso sul serio la loro parte, dal non accorgersi che, nel frattempo è ingiallita. E loro, con essa.

02/11/08

Cortocircuiti metropolitani

Giorni fa, ora di pranzo.
Sono a tavola con una masnada di tagliagole. Colleghi che non guasterebbero in un remake italiano dello splendido film “The big kaouna” del mitico Danny DeVito.

Mentre si discetta del più e del meno (ma soprattutto del meno) suona il cellulare.
Leggo sul display “Stefania”.
Faccio mentalmente appello alla mia memoria per ricordarmi di costei. Arrivo alla velocità della luce a definire chi è, anche aiutato un po’ dalla voce….Cletus ?
Si, rispondo, con nonchalance.
Ciao sono Stefania.
Si l’ho visto.
(mentre mi chiedo cosa possa volere…ricordo che ci sono uscito a cena una sera ma la cosa è morta lì, e da allora ci siamo visti sempre e solo per questioni di lavoro, nelle rare volte che passo a trovare il cliente presso il quale lavora).
Senti Giuseppe, ho un problema coi denti.

Ora, per pura coincidenza anche io sto attraversando una fase analoga e sto raccogliendo preventivi per una cura il cui costo si aggira su quello di un’utilitaria. Cosi, inebetito dalla curiosità mi dispongo all’ascolto e sento che mi dice….
“ho problemi, mi si sono rotti due denti, non riesco a masticare”….

A quel punto, realizzo che è un altro Cletus quello che sta cercando e la blocco….Senti Stefania, prima che la telefonata scivoli sul compromettente, credo che sia un altro Cletus colui che stai cercando, io non faccio il dentista (almeno…non ancora).

Silenzio.

Dopo qualche secondo di sbigottimento. Scusami Cletus, è che sto guidando e non ci vedo bene, ho cercato sulla rubrica e t’ho chiamato scambiandoti per un altro Cletus che fa il dentista.
Si me ne sono accorto.
Nel frattempo la platea di colleghi che ha assistito alla telefonata era variamente piegata sui rispettivi piatti a ridere a crepapelle.

Non parlarmi di denti, Stefà, sto messo peggio de te.
Sentiamoci per andare a cena magari eh ? E fammi sapere se il tuo amico è bravo !
Ok, si certo, e scusami ancora, Cletus.
Di niente, ciao.

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01/11/08

L'importanza del lato B, di Annie Kelowsky

Da una scarna recensione su qualche rivista di culto, specializzata in libri [tuttolibri e l'inserto della domenica del Sole24] ho appreso dell'esistenza di questo testo. Fresco di stampa, l'ho trovato senza troppa fatica in una grande libreria di Roma. "Evento dell'anno", recitava l'immancabile fascetta.
"Candidato al Book prize", un'altra, e "Da questo testo, a breve un film diretto da Wim Wenders" un'altra ancora.

Con credenziali del genere, minimo aspettarsi un capolavoro.
E in parte lo è, ma di geometria che dilaga nella psicologia.

Il lato B. Il lato B, informa la nostra vita. E' dall'epoca del vinile, sia a 33 che a 45 giri, che il lato B riserva sorprese, spesso rivelandosi migliore del più coccolato lato A.
Il lato B, è il lato dell'outsider. Di quello che parte perdente. E' il suo territorio. Il lato B è come scendere col piede sbagliato la mattina dal letto. Il lato B, nelle sue infinite accezioni, calza anche quella del posteriore femminile. L'autrice, rimandando sottilmente a Flatlandia, rimarca la concezione bidimensionale dello spazio da cui discende la terminologia. Siamo nel medioevo geometrico, la terza dimensione, gli ologrammi sono ancora di la da venire. Eppure, la complementarietà del lato b, ne consacra proprio la funzione, come un qualsiasi gruppo di spalla, nel tour del gruppo di star. Senza lato B, non risalta adeguatamente il lato A. E la Kelowsky insiste molto su questo aspetto, nel tentativo di riabilitare un lato che nell'immaginario collettivo sottende un qualcosa di qualitativamente più basso, del suo opposto.

Un riscatto, la sequenza di aneddoti che il testo riporta. Da quelli dell'antico Egitto, dove, in forza della particolare maniera di affrescare le pareti (con figure tutte immancabilmente ritratte di profilo) a quando, dovendo dipingerle sul vetro, gli uomini addetti alla pittura speculare, sul lato opposto, gridarono al miracolo, quando ad uno di loro venne in mente di usare la lastra come un'antesignana porta girevole, in un gioco ottico degno dei fratelli Lumiere. Era l'inconsapevole invenzione del cinema, molti secoli prima dell'avvento della Pixar e dei fratelli Coen.

O ancora, quando all'indomani del Congresso di Vienna, al generale Metternich, (che per pura bizzarria faceva Clemente di nome) venne in mente che la cartina geografica della turbolenta Europa potesse essere dipinta su di un pavimento, ricorrendo alle policromie del marmo per distinguerne i confini. Fu un messo napoleonico che per gioco, nottetempo, ne disegnò il riflesso speculare sugli alti soffitti del salone. Quando all'indomani, all'esortazione dell'emissario del Papa, tutti alzarono gli occhi al cielo, prim'ancora che per invocare la pace, che per seguirne tacitamente l'esempio, ci fu un clamore generale, nell'accorgersi che la mappa, come per magia si fosse specchiata nel soffitto, rimescolando i confini e dando luogo ad altre, lunghissime trattative, interrotte dall'assaggio di incredibili Sacher torte, che la cucina imperiale non mancò di fornire ai suoi nobilissimi ospiti.

Il lato b. Sul retro di Brown sugar dei Rolling stones, c'era "Let It Rock" (di Chuck Berry) che fu registrata dal vivo presso l'Università di Leeds nel 1971; Isn't It A Pity su quello di My sweet lord cantata da Gerge Harrison, Ma non sempre il lato B, ha incontrato i favori del pubblico. Eppure, se non ci fosse, sembra dirci la Kelowsky, il lato A della nostra vita non sarebbe cosi bello e meritevole di essere vissuto.

Un testo da leggere di sera, quando dopo essersi rigirati nel letto una ventina di volte, il sonno stenta ad arrivare ed improvvisamente ci prende voglia di leggere qualcosa di assolutamente assurdo.

Annie Kelowsky. L'importanza del lato B, trad. Alfredo Mondo, Cantarella edizioni 16,00 €.