13/04/24

 


Capisco nulla dei meccanismi interni del modo di fare televisione pubblica, meglio “servizio pubblico”, ma due cose intorno al tormentone “Amadeus va o resta?” è il caso di farle.

Anni fa, preso dalla voglia di proporre un format per una trasmissione che parlasse dei libri in modo “non convenzionale” mi feci una certa cultura, documentandomi, studiando su “bibbie” suggerite da addetti ai lavori (su tutte, Paolo Taggi, “Il manuale della televisione”).

Tanto lodevole sforzo si rivelò vano (salvo un incontro coi responsabili di Fox tv, arcipelago di Sky).

Una cosa però fu chiara: la scelta di cosa trasmettere è intrinsecamente legata alla capacità di fare audience e quindi incidere in modo importante sul costo degli spazi pubblicitari da vendere.

Che sia pubblica o privata, qualsiasi televisione che voglia restare a galla deve tenere ben a mente questo parametro.

Ora, si obietterà, che cazzo vuole la Rai? Non ha già il canone, di suo, a metterla in condizione di potersene fottere di tale equazione/parametro?

Evidentemente no. “Er contatore gira” deve essere un incubo che stimola a trovare sempre maggiori coperture (vedi gli stuoli di inviati, troupe a piè di lista, spediti in lungo e largo per il mondo per ogni evento…).

Tutto questo provoca una distorsione è indubbio. L’audience è il vero totem sacro che regola e detta le leggi non scritte di questo mondo.

Imprigionati da questa logica, fatale che poi si subiscano i ricatti. Lasciamo stare l’aspetto sociologico, le sparate di Minoli “Amadeus incarna il paese reale”, a rendere “inamovibile” questo o quel presentatore (ieri Fazio, oggi Amadeus, domani qualcun altro) è proprio questo cancro che mangia risorse, toglie spazi, annienta qualsiasi coraggioso tentativo di innovare, di uscire dalla logica orientata ai profitti che regola l’attuale dirigenza dell’ente televisivo.

Il tutto in danno (o alla beffa) di aver vituperato per decenni la qualità delle tv commerciali del Cavaliere, arrivando oggi ad imitarle in un malinteso senso della concorrenza.

E tutto l’armamentario della diversità svanito come neve al sole. In altri termini, che vada via o meno, il sottostare ai ricatti (“voglio una trasmissione per mia moglie” cit. corriere.it di oggi) rappresenta il fallimento di qualsiasi capacità di interpretare la funzione di un “servizio pubblico” in modo corretto e coraggioso (penso alla BBC in UK) contro logiche da magliari, suk multimediatici con i quali, sostanzialmente, mantenere ciascuno le proprie “rendite di posizione”.

10/04/24

Lunapark? No, Santiago Bernabeu...

 A cosa abbiamo assistito ieri sera?

Premettiamo una cosa: a dispetto di tutte le critiche, le polemiche, i procedimenti contro le società che ne vorrebbero l’abbandono per una non meglio precisata Superlega, il fascino, il perché, l’essenza stessa della “logica” della Champions ha trovato la sua espressione nell’andata dei quarti di finale fra Real Madrid e il Manchester City.

Chiunque ami il gioco del calcio, ovvero l’arte di insaccare quanti più palloni nel rettangolo da 7,32x2,44 metri presidiato dall’avversario, ieri sera non può non aver gioito, stropicciandosi gli occhi.

I primi 15’ con ben tre reti (prima il City, con una punizione beffarda che ha sorpreso il portiere del Real, poi il pareggio del Real con un colpo che saremmo più abituati a vedere sul tappeto verde di un biliardo, lento ed inesorabile ad infilarsi ai piedi del palo opposto della porta del City, infine il secondo gol del Real), hanno dato in maniera precisa la sensazione a chi la stava seguendo che non si sarebbe trattato di una partita “normale”. Il secondo tempo, per non smentirsi, ha visto il pareggio del City (2-2) il successivo vantaggio dello stesso (3-2) e il bellissimo pareggio finale del Real.

Tuttavia, la fredda tabellina delle marcature, le consuete statistiche a fine partita non renderebbero omaggio a qualcosa di “astrale” che si è visto in campo. Certo l’altalena di emozioni, con il conseguente, “doveroso” pareggio al fischio finale, danno bene l’impressione di qualcosa di spettacolare, quasi un lunapark, in luogo del Santiago Bernabeu, stipato all’inverosimile.

Giocata a ritmi sostenuti, con continui ribaltamenti di fronte, si sono affrontate due squadre guidate dai tecnici più acclamati sulla scena internazionale, da un lato Carletto Ancellotti, il parmiggiano con il sopracciglio più famoso dell’UEFA, dall’altro Pep Guardiola, catalano, considerato uno degli inventori del “calcio moderno”. Entrambi con un palmares di tutto rispetto.

Improprio azzardare paragoni con il calcio nostrano. A marcare la differenza la velocità, ovvero la capacità dei giocatori di sostenere dei ritmi elevatissimi, di corsa, di palleggio, anche e soprattutto in fase di non possesso (ovvero l’arte degli scacchi applicata al rettangolo in erba). E tutto questo nella serata in cui le due rispettive “stelle”, su tutti Halland per il City e Bellingham per il Real non hanno disputato una delle loro partite migliori.

Ma al di là delle analisi tecniche, dei fiumi di parole che “gente avvezza al mestiere” spenderà per commentare la partita, va soprattutto considerata la componente spettacolare. E, ancora una volta, la palese sconfessione della corrente di pensiero (ahimè piuttosto diffusa sull’italico suolo) “risultativista” (ovvero l’arte di produrre il massimo risultato con il minimo sforzo). Non è affatto detto che il bel gioco sia in antitesi con i risultati. Anzi.

Partite come quelle di ieri sera, si incaricano di smentirla, platealmente, davanti agli occhi di tutti gli sportivi del mondo.

14/03/24

Dell'arte di gonfiare una notizia

 

Quando una notizia è veramente una notizia?

Da giorni veniamo bombardati da servizi sulla faccenda del foto ritocco di una fotografia della famiglia reale britannica. La principessa Kate, moglie del Principe Williams, ha avuto problemi di salute. Ricovero, poi le dismissioni dall’Ospedale (lo stesso dove è stato ricoverato, in concomitanza, suo suocero Re Carlo III, una lunga degenza in casa, tutto coperto dal più stretto riserbo.

Sappiamo del “peso” che queste vicende hanno, sia in ambito domestico (UK) che nel mondo. Cosi come sappiamo del ruolo (a volte complice, quasi sollecitato a tener viva l’attenzione) della stampa britannica. Il ruolo dei tabloid (recentemente sul banco degli imputati, ad opera del Principe Henry per presunte e conclamate, violazioni della privacy reale).

Pochi giorni fa, quasi a smentire guai seri (per sua fortuna) e al contempo rassicurare “lo regno tutto” che si, insomma, le condizioni della Principessa non sono cosi preoccupanti (si sa, il silenzio consente tutte le interpretazioni…) viene pubblicata una foto che la ritrae felice in mezzo alla prole sorridente.

E subito si scatena la bagarre. Con una dovizia di attenzioni la foto viene “vivisezionata”, passata al setaccio, analizzata come nemmeno il RIS di Parma potrebbe fare, e subito il verdetto “è taroccata”.

Apriti cielo, fioccano i titoli, scandalo a corte, quali sono le reali (si perdoni il bisticcio) condizioni di salute della Principessa, se una foto dai chiari intenti rassicuranti viene a scoprirsi che è visibilmente (i più esperti dicono anche in modo piuttosto maldestro) artefatta?

Chi, come, perché e dove. Sono questi i punti cardinali che ogni provetto giornalista dovrebbe conoscere. Si conceda che in terra d’Albione trattasi di questione preminente, ma da noi, seriamente, questa faccenda può riempire minuti e minuti dell’informazione che la Rai, servizio pubblico, ha sentito il bisogno di dedicargli?

Con tutto il rispetto per la Corona, ai reali inglesi, editori di tutto il mondo dovrebbero riconoscere una sorta di stipendio mensile. Una vera e propria fucina di notizie, vuoi spontanee come (viene il dubbio) maliziosamente propalate, tutto per tenere desta insieme, sia l’attenzione morbosa dei suoi sudditi come l’allure di una saga, che ancora nel duemilaventiquattro, in un mondo agitato da conflitti (anche di una certa entità), tiene ancora “banco” agli occhi di un’opinione pubblica non esattamente spensierata.

Cosi il fotoritocco è in prime-time, diventa faccenda internazionale, fintanto che la stessa protagonista, la principessa Kate non è costretta ad ammettere “niente paura, sono stata io!”. Dissipati i dubbi? Una parola definitiva che chiude e smonta il mistero? Macché, alla stregua di una di quelle telenovelas che si ostinano a mandare in onda nelle più infime tv private, c’è da aspettarsi uno stillicidio (attentamente programmato?) dell’intera vicenda, propinata sia sulla stampa locale che, come a far da sponda, quella internazionale.

Qualcuno lo chiama ancora “gossip”, a noi viene da rimpiangere i versi di Califano…evidentemente “tutto il resto è noia”.

 

09/03/24


Prove tecniche di distensione.

Ci siamo persi, per poco, la famosa scena della scarpa battuta con piglio sui banchi dell’aula del Palazzo di vetro di NY, ad opera di un Kruscev accigliato (abbiamo fatto in tempo a vedere l’altra, lanciata e schivata con prontezza di riflessi da Bush Junior, all’indomani della “Guerra del Golfo”).

Siamo venuti su, sotto il macabro ombrello di quell’eufemismo coniato con felice intuizione da qualche stratega di chissà quale think-tank, “equilibrio del terrore”. Equilibrio che ha consentito lunghe decadi di pace in un’Europa, storicamente teatro di guerre sanguinose.

Quest’atmosfera di calma relativa, ha visto crescere (anche se in scala diseguale) il benessere, lo stato di salute, l’istruzione di una popolazione che oggi, se non altro che per ragioni anagrafiche, se ha una memoria delle guerre ce l’ha per via della letteratura, del cinema o perché dalla comoda posizione di chi osserva le vede ancora attive in luoghi del mondo tanto lontani quanto sostanzialmente innocui.

Dal 24 febbraio di due anni fa, questo scenario è cambiato. La guerra è arrivata “in giardino”, a due passi dall’uscio di casa. L’invasione da parte della Russia di una larga parte dell’Ucraina, le scene di morte e devastazione arrivano nelle nostre case, con frequenza quotidiana, mentre stiamo finendo di consumare dei rassicuranti tortellini di Giovanni Rana.

Ed è fatale che la cosa finisca per riguardarci. Prim’ancora che per i suoi effetti perversi (prezzi delle materie prime energetiche schizzati alle stelle, politiche monetarie deflattive, tassi dei mutui sull’ottovolante) proprio perché ha spazzato via, dal nostro immaginario, l’idea che dal nostro vocabolario la parola guerra fosse sparita, talora arrivando ad una sorta di simpatia di sottotraccia per le aperture dei McDonalds sotto le torri del Cremlino…o dalle foto, inevitabilmente in bianco e nero, degli astronauti russi e americani a bordo della stessa navicella in orbita sulle nostre teste, quasi che, ma si in fondo si possa convivere tutti insieme senza eccessivi problemi.

Se c’è una cosa che ha caratterizzato i cambiamenti degli equilibri internazionali in tutto questo periodo è la velocità. A partire da quella con la quale, dalla caduta del muro di Berlino, si sono sgretolati come in una reazione a catena le nazioni cosiddette del fu “Patto di Varsavia” (quella parte di Europa che da allora guarda più ad Ovest che ad Est).

Ed è ancora la velocità, sebbene siano già passati due anni, la costante di un processo che oggettivamente non può rimanere cristallizzato nel paradigma “aiuti all’Ucraina fintanto che la Russia non si sarà ritirata”.

Una condizione di belligeranza continuata nuoce a tutti gli attori in causa. Ne soffrono i commerci, le rispettive economie. Già il ricorso alle armi, in luogo di un necessario negoziato, tradisce la volontà di sparigliare le carte, spinte da un malinteso desiderio di ridare centralità mondiale ad un paese simbolo che ha visto il suo peso specifico ridursi (e di molto) agli occhi della storia.

Il recupero di antiche vestigia, gli orgogli nazionalistici mai sopiti suonano oggi ancora più anacronistici in uno scacchiere internazionale dominato dalla fitta rete di scambi e relazioni commerciali. E’ un "mondo più piccolo" si usa dire e proprio per questo la variabile “guerra” appare tanto assurda quanto, alla lunga, controproducente. Non dovrebbe trovare posto, fra le variabili con le quali regolare i contenziosi fra stati sempre meno, in prospettiva, intesi come rigida delimitazione territoriale, in luogo di un’armonica coesistenza di stili di vita, culture, fra di essi.

Due anni, più di cento e qualcosa settimane, sono decisamente una porzione di tempo troppo lunga da sacrificare sull’altare della velocità. E c’è da sperare che sia questo, fra i tanti, l’elemento prevalente per giungere (anche in tempi inaspettati) ad una composizione del conflitto in terra d’Europa.


 

 

16/02/24

 


E’ nei particolari che riposa la differenza.

Non ricordo a chi appartiene questa massima, ma non ha importanza l’attribuzione. Quello che marca la differenza, nel mestiere del giornalista (meglio, del cronista di nera) è il delicato equilibrio fra il sacrosanto diritto di cronaca e l’autocompiacimento dello splatter conclamato.

Che la stampa in Italia (ma anche altrove) non stia passando un buon momento lo attesta la modalità con la quale vengono riportati i fatti.

Ho trovato disgustoso il modo col quale, in merito ad un recente (l’ennesimo) episodio di femminicidio, il cronista abbia ritenuto di pubblicare i dettagli delle frasi attribuite all’omicida. Pressappoco “l’ha finita con un colpo di grazia” e di seguito, come a riportare le sue parole “non volevo farla soffrire”.

Ora, detto che continuando ad esporre i fatti in questa maniera si alimenta il malinteso che possa trattarsi di un macabro videogioco (e chissà che in fondo in fondo non sia proprio questo il teatro mentale nel quale prendono vita questi progetti nella testa dei protagonisti di questi, ripetuti, atti di violenza), ma davvero, nell’ottica di voler fornire un servizio di informazione a una platea sempre più distratta da centinaia di banner, le testate online devono garantirsi la sopravvivenza andando a stimolare la curiosità morbosa dei lettori?

Detto che è tutto da dimostrare il criterio secondo il quale la ripetuta esposizione di fatti violenti, la loro enfatizzazione, contribuiscano ad esorcizzare il loro ripetersi, quasi funzionassero da monito, è viceversa molto concreta la possibilità che continuando a “raccontarla” in questo modo finiscano per banalizzarla, amplificandone i perversi effetti emulativi.

In altri termini, poco mi importa della tua necessità oh articolista a gettone del grande giornalone nazionale online, che tu debba generare quanti più “click-bait” per giustificare la tua immagino non lautissima retribuzione, quello che si è del tutto smarrito è il senso della misura.

Da qui, non da altro, dipende anche la necessità di porre un freno al ripetersi di tali efferati delitti. Cominciando a trattarli per quello che sono, smettendola una volta per tutte di utilizzarli con un’inutile esibizione di dettagli sensazionalistici. Solo per la vostra maledetta sete di guadagno, andando infine a stimolare gli istinti più biechi, quella curiosità morbosa che finisce con il diventare facile benzina per il loro tristo e drammatico ripetersi.

Andate, sinceramente, affanculo!

14/02/24

Sanremo? No, Hunger games.

 Sanremo? No, Hunger games.


E’ finita, è finita, è finita. Anche quest’edizione è andata. Record di ascolti a consacrare la scelta di “scalettare” su cinque serate, affidandole una ciascuna ad un presentatore diverso. Nel dubbio tu metti che a levà se fa sempre in tempo.

Il Sanremo dell’incertezza, come fosse un termometro del Paese. Il grande disordine internazionale, con tensioni a due passi, la salute dell’economia, finita la “sbornia” del 110%, il festival dei tassi, debellata la pandemia, si scandiscono i mesi avvolti nel dubbio. Nel frattempo, ci si scopre più inclini a rimuginare preoccupazioni che a progettare radiosi futuri. E in questo il Festival non ha mancato, regalando un testa a testa che, potevano mancare? Ha dato luogo a strascichi di polemiche. Una sorta di riunione di condominio andata a male.

Se solo si accenna ad un messaggio di pace (concedete la dietrologia, ma perché perdonarla, all’epoca, alla coppia Lennon-Ono, con il loro appello-megaposter affisso nelle piazze delle più grandi città di tutto il mondo “The war is over” seguito da un prudente “if you want it”) mentre se lo pronuncia un ragazzo si smuovono ambasciatori? Piuttosto, sarebbe stato più bello se qualche canzone avesse affrontato il tema in modo più incisivo, invece di sfiorarlo appena nell’intervallo fra un concorrente e l’altro, no? Si dirà, altri tempi, le ragazze si vogliono divertire (cit.) cosi una sequela di canzoni pensate, strutturate per propendere verso la leggerezza…

Ma è davvero così? Salvo qualche testo, quello di Mahmood, quello lisergico di Bunker quarantaquattro, il “sociale” è rimasto sullo sfondo, più reggaeton che impegno (la marcetta “Un ragazzo incontra una ragazza”), figurarsi la denuncia. Ad altri (e già è un fiorire di articoli-servizi in merito) il compito dell’analisi dei testi (c’è chi si è divertito a contare quante volte ricorrono alcune parole nei brani presentati sul palco, vedi a volte la comodità degli algoritmi...?) quanto alle melodie, salvo rare eccezioni, “roba triste” come dice un mio amico, rare le “botte di vita” (posto che fra queste non si vogliano annotare i Ricchi e Poveri…). La dove la riproposizione di scansioni musicali tipiche del rap o hiphop (quello vero, made in USA) lascia spazio a qualcos’altro, in soccorso arrivano le tipiche melodie latino-america. Buone per ballare.

Ecco, si forse è di ballare che in questo momento c’è bisogno, perbacco non sono in fondo gli anni 20? Come il ragtime prese il via dalle tastiere poste nei bordelli, finita da poco la Prima guerra mondiale, mentre in Europa ci si industriava al bis, anche quella musica d’evasione, e quale miglior tappeto musicale per incontri anche bene mercenari, che rimandino ad un mai sopito desiderio di gioire?

Così, questi Hunger game di noaltri, hanno visto le solite comparsate di ospiti internazionali, Travolti da un insolito destino, quello più chiacchierato, del qua-qua. Vecchie glorie per lisciare il pelo al pubblico d’antan, metti mai si annoiasse fra un autotune e l’altro. Ma ad oggi, a palco ancora caldo, prematura qualsiasi previsione. Di solito i verdetti sono fatti per essere smentiti. E in questo il mondo delle radio, c’è da scommettere, giocherà un ruolo non secondario per “bombardarci” con motivi che vedranno così decretato il premio di consolazione (si fa per dire) del “gradimento del pubblico” (posto si voglia ancora credere all’aggettivo “libere” che le caratterizzava agli albori della radiofonia in “effeemme”, oggi saldamente dominata dalle scalette imposte da questa o da quella casa discografica).

La Noia, nome-omen, canzone vincitrice di questa edizione venti ventiquattro, vedi bene è pubblicata da una etichetta indipendente. Se si è disposti a perdonare il ricorso al ritmo della Cumbia, non propriamente tipico di Lagonegro, un piccolo segnale positivo.

20/04/21

La la la Superlega



Non ho nozioni giuridiche, di Borsa ne capisco quanto di astronomia molecolare e queste sono solo due considerazioni messe in fila in qualità di umile fruitore dello show-calcio.

Abbandonando per un momento il clamore delle ultime ore (fatale si tratti del solito abbaiare alla luna)...

Il Calcio gode di una audience che non ha nessun altro sport. Il calcio, sulla carta, è (o meglio, sarebbe) portatore di sani ideali: competizione, spirito di squadra, risultati che se li vuoi ottenere devi passare dal duro lavoro (allenamenti). Una metafora della vita per come comunemente intesa. Sulla carta.

In realtà, da tempo, a questi valori primigeni si sono sovrapposti robusti interessi perché di fatto è diventato un business molto redditizio. Per chi? Per i fruitori come me, costretti a pagare ben due abbonamenti (Sky e Dazn) per poter seguire le gesta (si fa per dire, visti i recenti alterni risultati) della squadra per la quale “tifa”.

Aggiungi gli “Sponsor”, leggi Aziende che trovano corretto investire dei denari in cambio di visibilità e consolidamento. Quasi che, al solo esser cuciti sulle maglie dei giocatori di tale squadra, ne corrispondano automaticamente sensibili aumenti di fatturati.

Aggiungi i “procuratori”, gente che non sfigurerebbe al posto dei battitori di un’asta da Christie’s. In pratica, come il lievito Bertolini, in grado di prendere sotto tutela le sorti di un giocatore per cercare di “ottimizzarne” il ritorno economico, e di lucrarne di conseguenza.

Aggiungi le pay-tv. Vuoi vedere i tuoi beniamini? Paghi. Finiti i tempi dell’adolescenza, quando dallo schermo in bianco e nero, debitamente in differita (le partite, tutte, si giocavano alle 15, la trasmissione avveniva un due, tre ore dopo) mammarai ti concedeva appena 45 dei 90 minuti di una partita, salvo, nella patria del Bignami, proporre una caritatevole sintesi (antesignana degli odierni highlights) commentata da giornalisti diventati anch’essi storia, reperto e sangue della declinazione del calcio in tv.

Aggiungi a tutto questo quadro (e come poteva mancare) un robusto impianto di Enti, Federazioni, con un’architettura cosi ben congegnata dall’aver saputo diventare, nel tempo, autorevole come le famose tavole della legge vendute a dispense sul Sinai. Una piramide di potere, un gioco di equilibri giurisdizionali da far impallidire la pù avveduta cupola mafiosa. E, aggiungo, di riflesso aumentando i commensali alla tavola delle spartizioni.

Ora, la presenza di Bibbie inamovibili nell’era della globalizzazione, nell’enfasi dell’economia di mercato, stona non poco. Ma come? Si plaude al liberismo, si brinda alla libera circolazione dei capitali, le borse mondiali sono interconnesse meglio dei nodi di un tappeto persiano e si tollera ancora la presenza di Moloch che pretendono di tenersi la torta tutta per se?

Era inevitabile, quasi già scritto nelle cose. Dalla licenza di quotarsi in borsa, dall’introduzione di meccanismi opachi (opachi nella loro, presunta, rigida applicazione) quali il fairplay finanziario, gli organi al vertice del business, vero e proprio “stato” nello stato, o meglio “sovrannazionale” visto l’orizzonte della loro influenza, pretendevano davvero di vivere ancora nel loro medioevo, denso  di privilegi e del trionfo dell’arbitrio?

Doveva succedere e quando successo negli ultimi giorni non ne è che la prova. Alla stregua di una qualunque assemblea degli azionisti, alcuni grandi club hanno lanciato (voglio credere ispirati da quei filantropi che si sono già resi protagonisti in passato di poco esaltanti risultati come il crollo di Wall Street nel 2008) a modo loro, una OPA. Andando a minare decenni di poteri stratificati, come un millefoglie, facendo saltare la “torta”, non più paghi della fetta a loro destinata da un Tribunale supremo poco incline all’idea di redistribuire in modo più democratico prim’ancora che brandelli di potere, risorse a dir poco appetibili.

Lo scontro è tutto qui e va letto come un naturale sviluppo del conflitto di interessi che è dietro ad una passione che, ha un bel dire Zeman, in ogni angolo del mondo, dove due tre ragazzini si divertono a giocare con una palla, lì è il calcio.

Non so come andrà a finire. E francamente poco interessa. Quando il sangue scorre nelle strade, esci e compra, recitava un vecchio adagio per lupi di Borsa. Un sentore quello si, e già da tempo, abbandoniamo presto l’idea che tutto questo si tradurrà in un qualche beneficio per i tifosi (la vera linfa vitale dalla quale provengono gran parte delle risorse, abbonamenti, merchandising, e pandemia permettendo, biglietti per gli stadi). 

E ora accomodiamoci in poltrona…