Staccato il biglietto ieri sera. Comincio a dare ragione agli americani: lo giudicano sopravvalutato sopratutto in Europa. Non è un caso, che è da un po' che il regista sceglie città europee come scena per i suoi film. Lo ha fatto con Barcellona, sullo sfondo di un complicato intreccio (che da qualche parte ho già recensito) adesso tocca a Parigi (mentre è previsto il turno di Roma).
Ecco un altro caso nel quale un regista diventa prigioniero dei suoi stessi stereotipi. Ma mentre potrebbe essere un elemento in qualche modo riconducibile alla definizione di una sua “cifra”, qui si ammanta di un significato negativo.
Allen sciorina la solita storiella, affida stavolta alle sue battute ad un attore che sia nel doppiaggio, che nella mimica ne ricalca gli stilemi, arrivando a somigliare ad una sorta di ventriloquo del potente ego del regista. Insomma, una noia mortale. Peccato, peccato che le battute al fumicoltone, qui arrivano incartate, rallentate e innocue dietro ad un ossessiva e quasi stanca riproposizione dei soliti schemi, la crisi di una coppia di promessi sposi, le ansie di uno scrittore in crisi creativa, e unico sussulto, uno spunto narrativo giocato sul doppio binario del tempo che viene però svuotato del suo potenziale dalla mancanza di coraggio e finisce con insolentire la sospensione della incredulità generata nello spettatore.
Si potrebbe dire che il film sia uscito (se esistesse, ma forse si) da uno di quei software dove, dati certi ingredienti, il plot si auto-genera, in obbedienza a tic e elementi di distinzione che ci hanno regalato i film dell'Allen migliore.
Qui siamo nei dintorni del “mestiere”, nella sua accezione più negativa. Rari i sussulti, e a stento si rimane svegli, cullati dalla musica quella si, curata con intento filologico, e tale da tenere su, quasi da sola, l'attenzione dello spettatore.
Da vedere in un pomeriggio (piovoso) di domenica, sbracati sul divano, e con i piedi debitamente infilati in un accogliente catino con i sali.
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