13/07/12

Femminicidi due














Vorrei che leggeste questo post, di Ezio Tarantino.
Subito dopo vorrei che lasciaste da fare tutto. Un attimo. Interrompere il flusso dei pensieri, per un momento. Staccarvi dagli impegni e lasciare che la lettura faccia il suo effetto.
Quando Ezio scrive cosi è impegnativo. Ma è una fatica ripagata. Invita a guardare oltre.
E io a questo post ho continuato a pensare, nel corso dei giorni successivi alla sua lettura, quasi per caso: era linkato in un suo quasi timido post su facebook. Una di quelle rare perle che si perdono nel mare magno delle cazzate...nel teatro dell’effimero.

Partiamo da Bolano. E’ vero, anche io ne la parte degli omicidi, anzi dei femminicidi ho arrancato. Mi faceva fatica il leggere pagine e pagine piene di verbali e dolore. All’epoca spontaneo, non ancora corroborato dall’informazione che erano tutti omicidi realmente avvenuti e che quelli sui quali si basava la asettica ricostruzione del ritrovamento dei cadaveri e quasi da brogliaccio da questura, erano in effetti qualcosa a metà fra un mattinale e un rapporto scritto da qualcuno dotato almeno dei fondamentali: scevro da sovrappensieri, e scarno al minimalismo. Semmai è la collocazione di questi rapporti, cosi, accostati ad alcune fra le più belle pagine di letteratura del resto di 2666, a farle brillare ancor di più per manifesta esposizione alla violenza.

C’è stato Giorgio dell’Arti che anni fa pubblicò un testo “Il coro dei morti ammazzati”. In quel caso, qualcosa di analogo, l’autore come scandendo una giornata, volendo conferire un ordine anche lì ad una cruda sequela di delitti, li iscrisse (presumo prendendo a prestito il momento effettivo della giornata nei quali si erano consumati) in una scansione misurata nel tempo di una giornata: mattino, pomeriggio, sera, notte.

Pagine di inchiostro sono state spese sulla funzione catartica dell’esposizione alla violenza. Siamo tutti Alex, si quello di Arancia meccanica, terapeutizzati a nostra insaputa. E il nostro rapporto col male, dice anche molto del modo col quale lo gestiamo.

All’apprendere dell’ennesimo dramma familiare, la dicotomia oscilla fra l’indifferenza (ma quanti sono e con quanta frequenza si ripetono questi “femminicidi”), e l’immediata archiviazione fra i fatti che accadendo ci ricordano che fra i nostri simili c’e’ gente cosi. Lasciamo alla fredda statistica il compito di questa contabilità necrologica. Prendiamo il discorso di Ezio. Ezio è come lamentasse la mancanza di un Atlante ragionato del male. Un volume che un po’ tutti faremmo bene a leggere.
L’esposizione alla violenza produce in modo immediato la sua ripulsa. Ci immunizza dall’anche solo pensare a riperpetuare gesti simili. Eppure, il rischio, volendo accettare (si passi il verbo) anche questo nel novero delle cose possibili fra una coppia di individui di sesso diverso, che quel lampo di pazzia, chissà a fronte di un momento di annebbiamento sia possibile non controllarlo e trovarsi d’amblè sulle cronache di un giornale, con la nostra brava faccia di cazzo della patente di anni fa.

Non so. L’argine è la conoscenza. Chiaro che il frettoloso archiviare, sospinto dall’ennesimo e più recente fatto di sangue, collabori a considerare “normale” che tutto questo accada, possa accadere fra un uomo e una donna che vivano un qualche disagio nel loro rapporto.

No, non è solo affare di sociologi, di terapeuti della coppia ansiosi di documentarsi meglio circa le dinamiche e divertirsi successivamente nel gioco dell’interpretazione. La scrittura, anche bene quella di un articolo di giornale, per quanto attenta possa dirsi già contiene in sé i prodromi dell’accettazione. Ed è probabilmente questo il fienile disposto a prender fuoco non appena una scintilla si incarichi di scoccare nei dintorni.
Ci siamo abituati, ma l’escalation delle ultime settimane, di adesso, di questo 2012 condito dal culo di Belem, della sua farfallina tatuata, ci dice che qualcosa non torna. Ne stanno accadendo troppi.
E allora delle due l’una: o al di là della tanto sbandierata crescita della cultura del rispetto, il rapporto con la donna discende ancora-e pesantemente- da riti arcaici che chissà da quanto ci portiamo dietro, oppure è la fragilità dell’uomo, inteso qui come maschio. Messo in ombra da una determinazione che già anche solo in chiave biologica richiederebbe il massimo del rispetto di ogni individuo senziente,  ma che rivela la paura, mai sopita, di un abbandono. L’incapacità a restare soli, prim’ancora che la perpetuazione di un dominio inconsapevole sull’altro sesso.

Rimedi ? Non ci sono. Salvo quelli di insistere, in ogni ambito sociale, sull’eliminazione della paura, sull’accettazione del se, sulla disponibilità a rimettersi in gioco, in una nuova relazione, suscettibile di diventare amore, altrettanto forte, sano e rispettoso.

Non puoi chiedere questo a chi per primo non si ama, e sceglie la soppressione come unico illusorio e risolutore strumento per tacitare (e stavolta per sempre) la propria e l’altrui ansia d’amore.



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