Segnalato quasi con timidezza dal proprio sito, ho preso questo piccolo volumetto di Giulio Mozzi,
edito da duepuntiedizioni, La stanza degli animali.
Si legge d’un fiato, contando su un numero sparuto di pagine. La mia lettura è avvenuta sui comodi divani di uno studio dentistico mentre ero in dolce attesa del mio turno. E mai attesa fu più gradita.
La scrittura di Mozzi ha del terapeutico. Il ritmo della sua narrazione a volte ossessivo, a volte immediato e spedito come il taglio di un bisturi, permette di lasciarti prendere per mano per farti un giro gratis sull’ottovolante della sua fantasia.
Il lavoro si muove intorno ad un dramma, dove però l’effetto di un avvenimento sconvolgente quasi non si percepisce. Viene lasciato in background, a far da tappeto, riducendolo in modo quasi ignobile a puro pretesto. Dal lavoro di scavo viene fuori invece tutto il resto, il passato di un padre,
la sua relazione con il figlio che narra, e il rapporto con i luoghi, le cose.
Ed è da queste “tangenze” che viene fuori il meglio di Mozzi, dall’andare ad indagare anche i semplici oggetti, con il loro carico, non detto, ma portante emozioni, affetti, conflitti, osservati con un distacco asettico, dove a prevalere (questo sembra esserne lo scopo sotteso) siano piuttosto le infinite variabili che si ribellano ad un corso di narrazione prevedibile e scontato.
La sorpresa, in altre parole. La ricomposizione di un fatto a partire da una differente maniera di mettere in relazione le parti che lo compongono, e che danno vita, qui la magia, ad un altro modo di narrare. Attenzione, non un puro e solipsistico esercizio di stile. Qui siamo in un nuovo territorio, lasciato alle spalle l’autocompiacimento dello sperimentatore della prima ora, Mozzi regala al lettore un’opportunità, segnando con suo stile un’altra maniera di raccontare oggi in Italia.
Ecco, se mai la valutazione dovesse prescindere dal testo in sé, questo piccolo volumetto possiede la grazia di lasciarsi leggere con un’attenzione inversamente proporzionale al numero delle sue pagine, lasciandoti, alla fine, con uno strano retrogusto.La capacità di spostare il tuo sguardo altrove, come nemmeno un navigatore satellitare saprebbe fare, in una giornata di nebbia. Dando al lettore la possibilità di dirsi appagato, lontano da effetti speciali e fuochi d’artificio, per una storia raccontata con un tono di voce quasi sussurrato ma deciso e impietoso.
C’è un autore che me lo ricorda, in modo prepotente, quando Mozzi scrive cosi ed è Williams Carlos William. (in particolare il suo Patterson). Non suoni irriverente nei confronti di entrambi, ma sono tante le assonanze, di ritmo, di poesia, di modo di guardare, con questa meraviglia trattenuta e controllata, e che lascia parlare le cose, affinando l’esercizio percettivo dei sensi, concedendo, per tutto il tempo della lettura, piccoli attimi eterni di felicità.
Da leggere.
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