30/11/13

Il Teatro degli oggetti, di Fulvio Abbate.



















Cosi l’altra sera c’è stata la prima.
In una sala del Teatro Argentina, convintamente riempita, è andato in scena lo spettacolo Il Teatro degli oggetti, protagonista Fulvio Abbate accompagnato da una valente fisarmonicista Désirée Infascelli.
Trattandosi di Fulvio Abbate, indiscusso protagonista di Teledurruti, un Frank Zappa prestato ai giorni nostri, non aspettatevi una pieces teatrale ordinaria.

Sovvertendo gli stereotipi, lo spettacolo non è tanto sostenuto dall’attore, qui i protagonisti sono gli oggetti, i più strani, semmai narrati in modo mai verboso o freddamente didascalico, da Abbate, graziosamente interpuntato da motivi alla fisarmonica.

L’effetto sulle prime è straniante. Sembra di assistere ad una delle tante conferenze di Ted, la congrega d’oltreoceano, impostasi come “pensatoio” del nostro attuale.
Abbate invece, con la semplice esibizione di oggetti, svolazza fra la poesia, la malinconia che è fisiologicamente “in bundle” coi ricordi, e attimi di totale ilarità.

Una capacità rara, diceva qualcuno, quella di far scattare una narrazione già solo da un banale (che, appunto, non lo è quasi mai, in questo senso) oggetto.
Da registrare l’impiego delle luci sui primi piani degli oggetti, replicati su un grande schermo alle spalle del palco, e una maggiore scioltezza (con rarissime sbavature o momentanei cali di tensione).

Abbate è un piazzista di emozioni, ci fa rivivere per tutto il tempo, il profumo dell’epoca cui sono appartenuti gli oggetti (di tutto: santini di Sante cilene dimenticate, venerate da ladri e prostitute per supposte capacità di rendere invisibili coloro che ne osservano il culto, appartenenti alla categoria appunto, pomelli del cambio che saranno stati motivo di vanto di coloro che li hanno impugnati, nel corso degli anni, foss’anche a bordo di comuni utilitarie).

E ancora anelli forgiati col metallo di B52 abbattuti dai Vietcong, statuine di JKF e del suo successore. Insieme il festival del kitsch, proiettato in un altrove, dove la valenza della pura materialità, come dice lui, trascende, sottraendosi alla perdita di significanza, anche se decontestualizzata.

L’interrogativo è semmai questo. Cosa rende certi oggetti immortali, immarcescibili? Il nostro occhio demodè o l’intrinseco valore che, sebbene estratto dal momento della loro creazione, ci sopravvive?
Nell’emporio Abbate, c’è posto anche per il simbolismo. Su tutti, un dischetto (marca Geloso, ha tenuto a specificare) che veniva usato per ascoltare i 45 giri sui piatti dei nostri giradischi, altrimenti nati per consentire l’ascolto dei 78 giri.

E’ come andare al lunapark. Un’ora e mezza di ginnastica delle sinapsi, abilmente sollecitate dalla prosa affabulante del “Marchese” e da un potente dejavù col quale, probabilmente, molti di noi, non hanno ancora finito di fare bene i conti.
Bravo!

la foto è di Giorgio Crisafi.

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