17/12/13

Perchè Pistoia?

Perché Pistoia? Che è andata cosi bene la prima che l’abbiamo voluta rifare. Luglio 2013. E’ il decimo anniversario della morte di Roberto Bolaño. Abbandonati progetti per un convegno faraonico (nel puro delirio di cletusproduction) si dirotta su una cosa più intima, quasi artiginale. Organizzata alla bell’e meglio (complice il concerto di Springsteen che vedrà il Baldi convergere sulla Capitale) si trova la terrazza di un amico compiacente e si organizza al volo la cosa. Catering, un minimo di allestimento (larvato omaggio alle pagine stese di Amalfitano citate in 2666), telecamerina digitale, e diretta streaming con Milano dove il caro Gianni Montieri, parteciperà con un suo contributo. Le tracce della serata sono disperse nel web…(per chi vorrà, i link si trovano sotto).

Stavolta il genio della lampada, al secolo Martino Baldi, ci invita a Pistoia per ripetere, con altri mezzi, ma stessi amorosi intendimenti, l’esperienza di lettura di un racconto di Bolano: La prefigurazione di Lalo Cura, tratto da Puttane assassine (ed.Sellerio). La saletta è quella di una libreria nel delizioso centro storico di Pistoia. Il palco è esattamente grande quanto la sala riservata al pubblico. Stavolta, ci sono una cantante Claudia Tellini, un contrabbassista Nicola Vernuccio, e un trombone, Paolo Ciampi . Ah, e c’è Martino Baldi.
In abito di scena, magliettina con collo alla lupetto, pantaloni a tubo attillati, scarpe delle buone occasioni: tutto rigorosamente nero. A chi li ricorda, somiglia a uno dei Gufi…che vestivano in tal guisa, ai tempi d’oro di Milano. Si comincia. Martino legge con la consueta passione. Viene accompagnato dalla musica che, salvo qualche rara sbavatura sui tempi, si presta benissimo all’incedere del racconto.

La trama è esilarante di suo. Ma di quell’ironia che è tipica di Bolano, sottesa, mai debordante, quasi trattenuta, se non nascosta. Pronta a farsi trovare dagli occhi di chi lo legge non limitandosi alla superficie, eppure capace di distinguerla in un profluvio di parole. Le storie di un gruppo di giovani donne sudamericane, finite nel giro di un torvo esule tedesco (non sappiamo se transfuga dal nazismo, o artefice in clandestinità, come la nutrita accolita di connazionali in quel del sud america). Intorno a costoro, narrato in prima persona dal protagonista Lalo Cura appunto, si agitano le pagine più corrive dello scrittore cileno. Con il suo registro che spazia dal lirismo più puro alla decadenza mai cosi ben descritta. Come la vita, del resto.

L’incedere della lettura coinvolge il pubblico, e viene scandito da brevi pause durante le quali la cantante Claudia Tellini da prova della sua meravigliosa voce che è insieme calda, perfettamente intonata all’atmosfera del locale e originale per capacità di partire in controcanto, affrontando scale volutamente disarmoniche con la più totale disinvoltura. Martino scandisce di suo, sostituendo i cartelli coi nomi dei sottocapitoli. Il pubblico dimostra di gradire, nessuno applaude (per quanto strano possa sembrare l’ho interpretato come un segno di rispetto e non di mancata compartecipazione). E’ una festa.

Il racconto si sviluppa incardinato su questo ordigno narrativo, la commistione fra i passaggi più salienti e le sottolineature degli strumenti che aggiungono un che di straniante al tutto. Tutto si tiene, in un equilibrio minimalista che lascia solo grande spazio alla parola, alla narrazione di Bolano, al ritmo della sua scrittura. Che rimane grande, anche dopo ripetute letture. Termina la lettura. Ezio ha girato quasi tutto (salvo gli ultimi due tre minuti nei quali, tipico dei mezzi cletusproduction la batteria della telecamera ha fatto ciaociao).
Usciamo, guadagniamo prima un bar su una piazza contigua e da lì diretti in collina, dove a Serravalle facciamo da cavie (scherzo) alle genialità culinarie dello chef con un menù particolare ma alla fine anche particolarmente intonato alla serata. Una luna quasi piena, visibile da dietro la torre illuminata ad arte, e un giro di Talisker old 12, si incaricano di suggellare la serata.

Pistoia. Mi ci dovrei trasferire.

In attesa del montaggio del video di Pistoia, qui per chi ha facebook, una pagina con diversi link alla serata romana.

07/12/13

Morire a Roma, oggi.















Diciamolo subito. E’ un business.
Intorno a questa “tappa” della vita, sembra che l’epoca moderna non si sia evoluta come sarebbe lecito attendersi. Oppure no, ne è uno specchio fedele. Una pratica (dalla quale succhiano soldi diverse figure) e che va subito archiviata, divenuta merce consumata (leggi: incassato il dovuto, anche per quest’ultima incombenza) e subito da dimenticare per far posto ad un altro.
E’ sicuro: si nasce e (prima o poi) si muore.

Questa fase della vita dovrebbe e dico dovrebbe essere trattata con una grazia maggiore. Per un mix di compassione nei confronti di chi ci ha lasciato, e nei confronti di coloro, a lui cari, che gli sono sopravvissuti.
La delicatezza totalmente scomparsa. L’approccio alla faccenda è quello di una fredda pratica burocratica. Automatismi, logori, e privi di qualsiasi sensibilità. Eppure non ci vorrebbe poi molto.

Un mio amico fraterno se ne è andato. Tralascio qui ogni considerazione personale. Ma attraverso l’esperienza diretta che ho potuto vivere in questo frangente sono giunto alle seguenti conclusioni.
Il Policlinico Gemelli (a maggior ragione si fregia dell’aggettivo Cattolico) ha una sala mortuaria (pomposamente definita camera ardente) da far letteralmente schifo. Camerette buie, un che di sporco, colori inesistenti, prive di alcun decoro (attenzione non parlo di carte da parati e tendaggi in stile Liberty) ma parlo proprio di tinteggiatura delle pareti, gradevolezza degli ambienti nei quali i parenti e amici porgono l’estremo saluti ai propri cari. Lo squallore. Non ho altre parole.

Ma non è un caso, i luoghi tradiscono anche da come sono attrezzati (organizzati) quello che è la considerazione nella quale sono tenuti. E’ assodato che un luogo simile, ai margini di un grande ospedale, sia piuttosto “trafficato”. Pacifico. Quello che traspare, dietro questa assoluta mancanza non dico di gusto ma di attenzione, è il ritenere il luogo come una mera discarica. Anche delle emozioni.

Eppure, la morte, in chi continua a vivere, può essere foriera di un grande momento di riconsiderazione.
Per proprietà transitiva, dal modo col quale rendo confortevole il momento ai parenti dei defunti, può attendersi una rivalutazione delle rispettive esistenze. Siamo, quanto a cività dimostrata in questo caso, a latitudini nemmeno tribali, dove voglio credere il momento della morte sia trattato con maggiore, ancestrale rispetto.

Qui è il territorio del disprezzo, della noncuranza, della sciatteria. Basta, sei finito, sei morto, che cazzo vuoi pure una stanzetta illuminata? Personale appena appena cortese e non dico partecipe (come le prefiche) ma almeno meno incarognito in un cinismo esibito che ne tradisce la miseria, l’attitudine alla miseria interiore incapace di considerare pure un momento come questo, anche solo in misura percentuale, come proprio, nel senso di appartenenza ad un genere umano, ad un contesto sociale, e sicuramente (qui, nessun dubbio) destinato anch'esso a sicura fine, foss’anche posticipata.

Quindi vergogna doppia. Un policlinico che si dice Cattolico e che proprio nel modo col quale tratta la morte (mica una roba da poco: c’e’ tutta una letteratura, chiamiamola cosi, che si incarica di trattare la faccenda, per evidenti intenti promissori: il paradiso, la resurrezione dei morti ed altre categorie che tanto hanno dato da scrivere ad illustri esponenti dell’omonima Chiesa).

Veniamo all’aspetto laico. Quanto a sciatteria non è da meno (da qui la sconsolata constatazione di quanto sopra: siamo proprio una società che la snobba la morte, su varie scale di ineleganza, sfumature).
Qui, l’avvento della crisi, ha portato addirittura degli attenti studiosi del costume a stilare statistiche circa il dilagare della pratica della cremazione (leggi: assenza di fondi necessari ad acquistare un loculo). Dalla freddezza statistica di un annuario Istat, e dal conseguente articolo di costume del giornalista di turno, si passa ad un contatto col reale.

Il boom (che buffo chiamarlo cosi, trattandosi di un momento di totale silenzio) delle cremazioni ha fatto si che ci sia anche una lista d’attesa. Cimitero di Prima Porta. Un’area adibita a questa operazione. I parenti assistono al trasbordo della bara dal carro (nel nostro caso: un furgone dell’AMA) ad una sorta di barella davanti ad un cancello che si apre con una frequenza importante (solo mentre sono rimasto lì oggi, in tutto un paio d’ore, saranno arrivate almeno una decina di salme).

L’operazione si presta anche a momenti involontariamente comici. Parenti che si assembrano intorno alla bara, nel momento dell’ultimo saluto prima dell’immagazzinamento (in genere la cremazione, c’e’ una lista d’attesa, avviene dopo una decina di giorni circa…) sovrapponendosi ai parenti di un’altra salma. Un ingorgo funerario, dove ci scommetto, alla fine qualcuno piange qualcun altro (e qui si riverbera il concetto che la morte di un qualsiasi uomo è affare che ci riguarda tutti). Ma è tutto per via indotta, sciatteria, freddezza burocratica, poco più di un fastidio.

Gli operatori, “gente rotta a tutte le emozioni” chissà, devono aver sviluppato un senso del cinismo proprio per sopravvire in un ambiente come quello, come autodifesa intendo, volendo incedere ad una logica assolutoria viziata dal politically correct. Ma è indubbio che sentir sollecitare una giovane donna in divisa "verde-ama" i proprio colleghi con un poco poetico “aho, sbrigamose c’ho tutti i forni vòti” è espressione sicuramente non dico di un mancato corso di perfezionamento ad Oxford, ma proprio dei fondamentali del rispetto altrui, svelando senza troppi infingimenti e in barba ad ogni considerazione poco poco offensiva circa il presunto strato sociale, degli individui poco o per nulla educati e pertanto lecito pensare siano stati messi lì (chissà le pressioni, in fondo è uno stipendio sicuro, un “posto fisso”) senza star troppo a formarli su una categoria come il “tatto”, elemento ritengo più che distintivo in chi si deve relazionare con un’operazione che smuove una cosa come i sentimenti, la fine della vita.

Quindi, zero totale anche qui.
Con il che si ripete. Non si cercano maggiordomi diplomati alla gran corte. Ma almeno persone, individui, cui andrebbe insegnato che anche dalla civiltà con la quale si tratta la Morte, ne discende una cosa che chiamano qualità della vita. E quella piccola differenza, che nei secoli, è stata coltivata per arrivare a distinguerci dalle bestie (le quali, ne sono certo, quanto ad emozioni, gli etologi moderni stanno scoprendo che ne avrebbero da insegnarci).


PS. Unico, piccolo, segno di attenzione, la presenza di uno spazio realizzato nei pressi del forno crematorio, inevitabilmente nominato “Il giardino dei ricordi”, circondato da piante, qualche basso muretto che funziona da panca, davanti ad una splendida visuale di una vallata non edificata,  e da una zona nella quale consentire ai parenti di raccogliersi e di disperdere le ceneri dei propri defunti. Ma di questo mi occuperò in un altro post.

risorse:
Truffe ai danni dei parenti dei defunti: http://www.corriereromano.it/roma-notizie/1883/informazioni.php
Giiustificazioni dei vertici AMA circa i ritardi: http://www.ilmessaggero.it/roma/cronaca/prima_porta_lo_scandalo_delle_sepolture_ama_tutta_colpa_delle_agenzie_aspettano_giorni_per_presentare_richieste/notizie/243969.shtml
Il giardino dei ricordi: http://paesaggiocritico.com/2013/03/06/il-giardino-dei-ricordi-al-cimitero-flaminio-prima-porta-roma/ricordi-3/



30/11/13

Il Teatro degli oggetti, di Fulvio Abbate.



















Cosi l’altra sera c’è stata la prima.
In una sala del Teatro Argentina, convintamente riempita, è andato in scena lo spettacolo Il Teatro degli oggetti, protagonista Fulvio Abbate accompagnato da una valente fisarmonicista Désirée Infascelli.
Trattandosi di Fulvio Abbate, indiscusso protagonista di Teledurruti, un Frank Zappa prestato ai giorni nostri, non aspettatevi una pieces teatrale ordinaria.

Sovvertendo gli stereotipi, lo spettacolo non è tanto sostenuto dall’attore, qui i protagonisti sono gli oggetti, i più strani, semmai narrati in modo mai verboso o freddamente didascalico, da Abbate, graziosamente interpuntato da motivi alla fisarmonica.

L’effetto sulle prime è straniante. Sembra di assistere ad una delle tante conferenze di Ted, la congrega d’oltreoceano, impostasi come “pensatoio” del nostro attuale.
Abbate invece, con la semplice esibizione di oggetti, svolazza fra la poesia, la malinconia che è fisiologicamente “in bundle” coi ricordi, e attimi di totale ilarità.

Una capacità rara, diceva qualcuno, quella di far scattare una narrazione già solo da un banale (che, appunto, non lo è quasi mai, in questo senso) oggetto.
Da registrare l’impiego delle luci sui primi piani degli oggetti, replicati su un grande schermo alle spalle del palco, e una maggiore scioltezza (con rarissime sbavature o momentanei cali di tensione).

Abbate è un piazzista di emozioni, ci fa rivivere per tutto il tempo, il profumo dell’epoca cui sono appartenuti gli oggetti (di tutto: santini di Sante cilene dimenticate, venerate da ladri e prostitute per supposte capacità di rendere invisibili coloro che ne osservano il culto, appartenenti alla categoria appunto, pomelli del cambio che saranno stati motivo di vanto di coloro che li hanno impugnati, nel corso degli anni, foss’anche a bordo di comuni utilitarie).

E ancora anelli forgiati col metallo di B52 abbattuti dai Vietcong, statuine di JKF e del suo successore. Insieme il festival del kitsch, proiettato in un altrove, dove la valenza della pura materialità, come dice lui, trascende, sottraendosi alla perdita di significanza, anche se decontestualizzata.

L’interrogativo è semmai questo. Cosa rende certi oggetti immortali, immarcescibili? Il nostro occhio demodè o l’intrinseco valore che, sebbene estratto dal momento della loro creazione, ci sopravvive?
Nell’emporio Abbate, c’è posto anche per il simbolismo. Su tutti, un dischetto (marca Geloso, ha tenuto a specificare) che veniva usato per ascoltare i 45 giri sui piatti dei nostri giradischi, altrimenti nati per consentire l’ascolto dei 78 giri.

E’ come andare al lunapark. Un’ora e mezza di ginnastica delle sinapsi, abilmente sollecitate dalla prosa affabulante del “Marchese” e da un potente dejavù col quale, probabilmente, molti di noi, non hanno ancora finito di fare bene i conti.
Bravo!

la foto è di Giorgio Crisafi.

25/11/13

Per Antonio.

Adesso che sei in un letto d’ospedale,
come ti ho visto ieri,
con tutti quei tubi attaccati,
tu che sei il mio fratello minore,
tu che hai camminato con me
per chilometri,
che ti incazzavi contro le ingiustizie,
con la veemenza di un adolescente,
e mi prendevi in giro,
tu, che ti puzzavano i piedi,
quando dormivamo in tenda.
Ascoltavamo Battisti,
e tutto ci sembrava a portata di mano.
Poi, poi gli stessi percorsi,
la stessa voglia e rabbia di vivere,
facendoci fare cazzate.
Poi il nulla, il silenzio.
Per tanti anni.
Fino a dieci anni fa.
Nel frattempo, figli, lavoro, testa a posto.
La vita, praticamente.
I momenti insieme,
ma mai, mai con quel senso di imbarazzo
che il tempo si diverte a corredare,
in circostanze come queste.
No, sembrava ci fossimo lasciati il giorno prima.
Intatta la voglia di vivere, meravigliarsi, di costruire.
Momenti insieme,
in mezzo al mare,
da soli, in silenzio al largo.
Le nostre pescate inconcludenti,
cui mai abbiamo concesso il lusso
di deluderci.
Poi i problemi di salute,
il trapianto.
La tua lotta per riuscirci,
l’avevi piegato, c’eri riuscito.
Ora sei lì,
disteso, assente.
Se non fosse per quella selva di tubi,
che ti entrano in ogni angolo del corpo,
si direbbe che ti stai riposando alla grande.
Ti parlo, non mi senti.
Ho portato le cuffiette,
volevo farti sentire un brano di Joni Mitchell
che so che ti piaceva.
Non hanno voluto te le appoggiassi,
passando attraverso qualche tubicino,
alle tue orecchie.
Sei lì, ti chiamo e non ci senti.
Ma sei lì, il tuo battito certifica
che ci sei ancora.
Solo, la tua testa è altrove.
Dovunque sia,
il gioco,
lo sto scoprendo solo adesso,
è come un richiamo.
Sto qui, da qualche parte,
e ti aspetto, è come mi dicessi.
Solo un miracolo, però,
vorrei essere io quello
raggiunto, dal tuo ritorno.
E accetto il tuo regalo.
Anche per questa, preziosa,

lezione di vita.

17/11/13

Venere in pelliccia, di Roman Polansky












Non ci andate. O meglio, fate come vi pare.
Da ieri sera mi interrogo sulla potenza del marketing. Ci casco sempre. Quasi che l’equazione: frequenza degli spot sottenda conseguente qualità. Non è cosi. O se lo è, lo è raramente.

Adesso datemi dell’incolto, di quello che non ne capisce niente, di uno che al cinema ci va per caso.
Va bene tutto, me le prendo tutte. Ma qualcuno mi dica, argomentando se può, perché mai registi alla frutta (in genere in la con gli anni) decidano di effettuare un’operazione che quasi mai riesce bene: trasporre una pièce nata , e pensata per il teatro in un film.

La cosa migliore (e impareggiabile ad oggi, per me) è stata The big Kahuna  di John Swanbeck , tratto da una commedia teatrale di Roger Rueff, che ne ha curato anche la sceneggiatura. In questo caso, Polansky trae da uno spettacolo di Broadway di tal David Ives, larvato omaggio a Sacher Masoch,”teorico” del masochismo.

Cosa fa la differenza?
Anche in Venere tutto il film si svolge in un unico ambiente (un teatro vuoto). Pochi gli attori (in The big kahuna, le performance stratosferiche di Danny DeVito  e, Kevin Spacey) in questo una  Emmanuelle Seigner molto brava e bella e un pressochè sconosciuto Mathieu Amalric (ma terribilmente somigliante al regista da giovane).

Allora cos’è che non va?
E’ una pizza: dialoghi nei quali si consuma una catarsi per un’ora e mezza, i protagonisti recitano a loro volta le prove di un copione (eppure l’argomento sarebbe anche hot, per saziare quel 3% di vojeurismo che consente al gossip di fatturare cifre importanti).

Non va. Non basta. Polansky è stato capace di meglio (un mio amico: “Il pianista? Lo rivedrei ogni giorno” -invero ne all’attivo anche altri non meno belli). Eppure il bisogno di fare cassa a volte ti fa scivolare su operazioni impervie, ma che contano, qui il colpevole “comparaggio” della critica militante, sulla cassa di risonanza che gli viene dal nome (e da non proprio trasparenti vicende personali).

Se vi piace il teatro, andateci. Al teatro.
Non svilite cosi un’arte (cinematografica) nata per altre cose.

Alternativa: tornare a casa e vedere Arbore fino quasi alle due di mattina, per riprendersi dalla legnata.

03/11/13

Charles Bradley a Roma.















Ieri sera, in un locale occupato (cosi ci tengono a chiamarlo), l’Angelo Mai Altrove, in via delle Terme di Caracalla si è esibito per la prima volta a Roma, “la leggenda urlante del soul”, Mr. Charles Bradley.
Voglio bene a quest’uomo. Alla sua musica, alla generosità che ci mette quando impugna il microfono (fosse in studio come onstage) e condivide la sua personale idea di umanità.

Uno di quei pochi casi nei quali la vita dell’artista non è, non può essere discinta dal modo col quale fa spettacolo, si dona. Ieri sera a beneficio di un migliaio di persone accalcate all’inverosimile in una location davvero troppo inadeguata per i tanti che evidentemente hanno imparato a conoscerlo e desiderosi di vederlo dal vivo.

Un mio amico ha trovato bizzarro che un ensamble votato al soul (anche bene rivisitato, con venature gospel, funky, blues) non abbia, oltre a lui, altri musicisti neri (si, per via di un retaggio duro a scomparire che vuole ribadita l’equazione, ritmo, passione, dolore e verità, solo se si tratta di gente nera).

Privo delle coriste (la cui assenza si è fatta sentire), ma con i ragazzi dei fiati (una tromba e un sax) che se mai dovessero istituire un Nobel apposito non avrebbero alcun problema ad aggiudicarselo, la sezione ritmica tenuta su da un batterista che ha sudato le famose sette camicie, ma deboluccia per quanto riguarda basso e chitarra. Ma è poco più di un dettaglio. Chi ha tenuto su la serata, cambiandosi ben tre volte (chissà, sudore senz’altro, ma anche un sorta di rito…) è stato lui, questo pluri sessantenne che da una vita di stenti e difficoltà, è arrivato al successo da poco, incidendo due dischi uno più bello dell’altro.

Bradley ha una voce che non può lasciare indifferenti. Generoso, la sfrutta in tutta la sua estensione, come fosse uno strumento che si innesta perfettamente nella macchina che gli produce il sound. I testi delle sue canzoni parlano di AMORE, amore allo stato puro, l’amore che solo chi ha sofferto tanto è in grado di ammantare del suo significato più vero. E’ un vero, Bradley. Niente infingimenti né pose da superstar, per lui l’imperativo è condividere, raccontandosi senza pudore, nelle sue sofferenze, ma anche nella grande forza di volontà che lo ha portato al successo in zona cesarini.

Ha snocciolato le sue canzoni più belle. Ha esordito con Crying in the chapel

(http://youtu.be/Ge-tqOZ1no4) forse la sua più bella, andate al minuto 3:10 dove la sezione fiati si guadagna, con un crescendo bellissimo un posto nella classifica delle più belle chiusure di sempre, per poi proseguire con altri brani dei suoi ultimi dischi.

Col passare dei brani la sua voce, è andata via via trasformandosi, tenendo il palco, non potendo fare a meno di spendersi, fino ad arrivare ad una cosa a metà fra un urlo e un sussurro, grondante sudore (non credo solo a causa della pessima areazione del locale, dove fra l’altro, c’era un fumo che si tagliava a fette).
Il pubblico stordito dalla sua vitalità, da un’energia che a dispetto degli anni, riverbera in ogni sua canzone.
Poesia, in un certo senso una capacità di interpretare tanta vita e trasfonderla in musica, sound ora potente ora aggressivo, ora pregno di una passione non comune.

Ecco, la passione. E’ questa la sua marcia in più, la sua autentica forza della natura. Indomabile, generoso, in altre parole: umano. Charles Bradley, un uomo che ha lasciato agli altri il compito di farne un personaggio. Lui è cosi, e a torto o a ragione oggi è diventato una leggenda.

20/08/13

Leggere in vacanza

Leggere in vacanza.
Devo avere qualcosa che non va. Non riesco a leggere, da qualche tempo in qua.
Vagheggio di andare via, anche solo qualche giorno, per ritornare,  il bulimico di letture che ero.
Cosi, quando preparo la borsa…metto dentro tutto quello che staziona, spesso da mesi, sul tavolino.
Vecchi amori, flirt improvvisi, poi lasciati lì a decantare, fino alla prima occasione. Questo spesso sono i miei libri.

Ho messo in valigia e ho letto:
Un catalogo di una mostra storica tenuta nel 2005 sull’Eur, a cura ovviamente dell’ente omonimo.
(mi serve per mettere dentro materiale sul quale devo elaborare una storia).

Poi Bolano. Stavolta, il recentissimo Romanzetto Lumpen, e il mai concluso Notturno Cileno.
Stupendi entrambi. Il primo si legge in un paio d’ore, poesia. Il secondo poesia anche lui. La scena del gesuita che spiega il marxismo a Pinochet vale il libro.

Poi Solo per Fumatori, di Julio R. Ribeyro, una raccolta di racconti uno più bello dell’altro. Scritti con un’asciuttezza particolare, soprattutto l’ultimo che narra di una coppia di amici (europei) che ogni anno tornano sulle coste del Perù sperando di trovare il luogo ideale (naturalmente isolato e sperduto) sul quale erigere una casa fronte mare.

Ho attaccato e concluso L’America non esiste di Antonio Monda. Malato di USA come sono, l’avevo preso per il titolo, non sapendo nulla dell’autore. Dopo averlo letto (e comunque apprezzato nonostante alcune gravi incongruenze) ho cercato news su di lui e ho scoperto che è nato a Velletri…vissuto ai Parioli, poi NewYork a manetta e la cattedra lì, esperto di cinema (il libro è ricco di citazioni) è spesso sul patrio suolo per organizzare eventi, una bella testa.

Infine, perché poi i giorni finiscono e ho dovuto riprendere la strada di casa, interrompendo l’idillio, Sparire di Fabio Viola. Del quale avevo apprezzato la presentazione qui a Roma, mesi fa. Fabio ha stile, racconta con garbo una storia che è un on the road ma con grande capacità introspettive.

Testi eterogenei, per stile, per tono. Ma va bene cosi. Un piacere raro. A bordo piscina, qualche volta con gli auricolari (quando la compagnia è troppo rumorosa e mi deconcentra), altre volte solo, sprofondato nelle pagine, divorandole una dopo l’altra per evadere, in un altrove dove regna la fantasia e lo sforzo degli autori per condividerla dalle pagine di un testo.

Avevo altri testi da leggere…Lucina di Moresco, e una roba piuttosto lunga Le leggi della frontiera di Cercas (amico di Bolano) ma per una serie di motivi ho anticipato il rientro.
Confido in questi giorni di semi-ferie, a casa, magari su una sdraio in giardino, Autan a manetta, e zanzare permettendo.