02/08/09

La differenza

Ci sono tre libri italiani importanti in giro

Cosi si intitolava un post sul blog vibrissebollettino, di Giulio Mozzi, uscito qualche settimana fa.
A vario titolo, e mai espressione fu più calzante, i tre libri in parola sono
Il tempo materiale, di Giorgio Vasta
L’ubicazione del bene, di Giorgio Falco e
Il mio nome è Legione, di Demetrio Paolin.

Mozzi sa il fatto suo. Se ritiene che questi tre testi siano dei "libri importanti” c’è poco da fare: vanno letti !
Cosi ho fatto.
Condizionato dalla possibilità di reperimento, i primi di giugno, mi sono messo a cercarli e li ho trovati. Quello di Falco e Vasta, con una certa facilità, quello di Paolin l’ho dovuto invece ordinare in quanto la sua casa editrice (Transeuropa) non risulta essere, almeno qui a Roma, nelle librerie più grandi, ben distribuita.

Con tempi dettati dalle incombenze del lavoro, intervallati da altre letture “spot” come le chiamo io, quelle cioè che ti “impongono” (non so bene in forza di quali meccanismi mentali) di essere letti subito, li ho terminati, tutti e tre, in poche settimane.

Ora, mi piacerebbe conoscere il criterio col quale, secondo Giulio Mozzi, questi tre sono “tre libri importanti”. Perché proprio questi tre ?

Questa la mia interpretazione.
Nel panorama letterario italiano, inflazionato dai Camilleri, dai Faletti, dai Moccia (stando ai primi tre autori italiani nelle classifiche di vendita fonte Tuttolibri-La Stampa) questi sono tre libri a-tipici. Non è in discussione, qui, il loro potenziale di vendita (credo, conoscendolo, che non fosse questo l’obiettivo del discorso di Mozzi). Allora penso piuttosto alla “qualità” della scrittura.
Ed è un criterio che condivido. Se volessimo tracciare una riga, ipotetica, fra vendita e qualità, questi tre lavori, ciascuno per la propria parte, sono dei segnali più che incoraggianti circa lo stato dell’arte della capacità di narrare oggi in Italia.

Nessuna competizione o scomodo paragone fra loro. Sono, ripeto, ognuno per la propria prospettiva, tre autorevoli punti di vista sull’attuale, o ancora meglio, sul nostro recente passato.
Se volessimo capire, per altre vie, cosa è stato l’ultimo quarto di secolo, nello Stivale, questi testi risulterebbero imprescindibili. Hanno, in altre parole, la capacità di cogliere, con gli strumenti propri della narrazione di ciascuno, il “rumore-sordo” che ha pervaso questi ultimi anni, più che con i logori strumenti della sociologia, con quelli, lasciatemelo dire, della poesia.

La loro qualità è tanto maggiore, quanto (sebbene depurati dalle inevitabili assonanze con autori stranieri, penso a Houellebecq per Vasta, a Cheever o certo Carver per Falco e al miglior Cortazar ma anche Izzo, per Paolin e indipendentemente dalla forma narrativa scelta: romanzo per Vasta e Paolin, racconti in forma di romanzo per Falco) sono sviluppati da “giovani” scrittori, oggi quarantenni che hanno vissuto “di striscio”, essendo appunto all’epoca adolescenti, gli sconvolgimenti dell’ultima parte del secolo scorso.

Ecco allora, il distillato di questo discorso è una consegna, dura e inappellabile. E’ la denuncia di un disagio che ha informato le loro esistenze, come quelle di tanti altri. Un rimprovero, nemmeno tanto garbato a quelli che gliel’hanno fatto subire, e che contribuisce, per la freschezza del modo di narrare, per l’autorevolezza della loro scrittura, al tentativo di metabolizzare quello che è stato, in Italia l’ultimo scorcio secolo.

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