11/10/10

Una sconfinata giovinezza, di Pupi Avati











Ultimamente, in ossequio a quella regola che recita mai mettersi di traverso alle scelte della propria compagna, sono andato a vedere due film scelti da lei.
Del primo, La solitudine dei numeri primi, poi magari ne parlo un'altra volta (se finora non l'ho fatto è perchè non avevo proprio molto da dire). Del secondo invece do qualche cenno qui.

Esco dalla sala con l'amaro in bocca. Ma come ? Uno spunto cosi “bello”, in una stagione caratterizzata dal dolore (Avetrana, ma anche l'Afghanistan con il suo tragico inventario di caduti) da far decollare i botteghini.

Esco con l'amaro in bocca perchè c'è qualcosa nel film che non mi ha convinto del tutto. Degna di nota la recitazione dei due protagonisti, la Neri e Bentivoglio, accurata la regia, “splendida come al solito la fotografia” (sopratutto nelle sequenze finali ambientate nella Romagna carica di nebbia).
Nebbia, ecco. La storia sembra perdersi, e chiude si, con un afflato quasi poetico ma non basta a dissipare quel senso di chiusura affrettata, di “vicolo cieco” della narrazione. Eppure, come detto, gli ingredienti ci sono tutti: il racconto dell'avvento della subdola malattia (l'Alzaimer) che lentamente ti fotte la mente, portandosi via i ricordi, scompaginandoli come un pazzo al quale venga data carta bianca nella Biblioteca Alessandrina di Roma.

Invece, il racconto procede a tratti in modo molto indugiante, caricando di pathos lo sviluppo della malattia nella testa di un affermato giornalista sportivo. Si è detto del ruolo della sua compagna. Coppia senza figli, per aperta ammissione della stessa, ad un certo punto del film, scatta il ruolo di mamma, e la terapia dell'amore (sentita scomodare dal regista stesso durante una intervista “d'ordinanza” propinata da qualche rete televisiva e alla quale ho prestato ascolto) che sostituisce un vuoto sociale (solo strisciato) compensato dai mezzi di una certo facoltosa famiglia borghese, con villa sull'Appia e parenti Primari di non si sa bene quali Ospedali.

Voglio dire. Vuoi fare un film (in un certo senso, avvalendoti dei soldi pubblici, Rai Cinema) su una malattia cosi, fanne una roba da denuncia. Non ti limitare a fare il poeta, dacci dentro. Non sono un regista, non ho intenzione di piazzarmi domattina, come fece il giovane Spilberg, con un banchetto dentro Cinecittà con sopra scritto Cletus Production, regista (lui lo è poi diventato). Ma perchè rovinare cosi un'idea ? Il film scivola malamente nel finale. Non dico altro per non rovinare il gusto della visione a chi vorrà “andare a vedere”, come fosse una mano di poker.

Abile nei flash back, iconografico nel ricostruire i dettagli dell'adolescenza del protagonista, in quel della provincia romagnola, il film si regge per “mestiere”, ma ha il fiato corto. Molto corto.

Sia.

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