Cechov dice che bisogna scrivere quello di cui si conosce. Andato volontario su un'isola adibita a colonia penale, e sostatovi per diverso tempo, convenne che l'aver conosciuto ogni singolo residente, gli avesse regalato l'opportunità non già di parlarne, ma di parlare delle proprie impressioni, del come aveva passato il tempo li, delle sensazioni che gli aveva procurato scambiare parole con loro.
Una rivoluzione copernicana, e insieme un punto di vista dignitoso. In altri termini, la realtà da un piano meramente oggettivo “cronicistico”, passa, filtrata attraverso la propria ottica (l'insieme delle esperienze che determinano lo sguardo soggettivo) riprende il sopravvento, come in una lotta atavica. Miglior servizio, per la narrazione, non esiste.
Con tale “focale”, la storia arriva a noi, lettori di più di un secolo dopo, intatta. Senza nessun infingimento. Almeno, lo sappiamo: sono le considerazioni di Anton Cechov. Punto.
Approcciare la voglia di scrivere un romanzo. Essere consapevoli di quello che potrebbe esserne l'umore. Ma atterriti dal confrontarsi con cose tipo una trama (il più possibile avvincente). Vorrei invece prendere a prestito la grande offerta di mezzi che quest'epoca ci regala. L'ipertesto, la possibilità di inventare un tappeto musicale che faccia da sfondo, alla narrazione. Una scrittura contaminata dalla seduzione dell''immagine. Capace di renderla senza ricorrervi. E donandola ai propri lettori, dotati di fantasia.
Cosi, per scherzo, immaginare che un capitolo possa essere corale. Raccontando delle visioni di un gruppo di lettori che leggono, hanno letto, lo stesso testo. Alla fine ciò che ne esce è uno splendido corollario di tutto ciò che è in grado di sollecitare una storia. Potrebbero farlo i personaggi stessi, rimediando alla difficoltà di reperire persone, amici che si prestino. E in tal caso, dovrebbe esser molto bravo lo scrittore a porsi difronte alla narrazione (che è sempre sua) come non fosse tale. Guardarla, dopo averla depositata su un piano, da tutti i punti di vista possibili. Esercizi da scuola di scrittura. Come quando ti dicono di narrare la storia di un vino, partendo dalle sensazioni del bicchiere che lo contiene. Cose cosi.
Allora, narrare del proprio quotidiano, sforzandosi di volerci leggere il midollo spinale di una poesia che stenta ad esser individuata, sotto il peso mortifero dell'abitudine. La meraviglia che genera il collegare cose fra loro apparentemente sconnesse. E la bravura sarebbe farla venire fuori senza declamarla, senza dichiararla, ma per semplice accostamento di piani narrativi. Una specie di reazione di fisica. Un campo di forze. Compiute, ciascuna, per i fatti suoi, ma che si dotano di un potere particolare nel caso in cui confliggono. Le parole, per dirlo, che a quel punto escono da sole. Come quando, la profonda convinzione e conoscenza di un argomento, te ne fanno declamare senza dubbio alcuno, la sostanza con una facilità estrema. Con la leggerezza di un ballo.
Fare appello alla geometria. La descrizione di punti. La carreggiata di una consolare che parte da Roma, intasata di vetture, spesso, con una sola persona a bordo. Il pretesto del maltempo a giustificare porzioni di tempo esagerate, sprecate per percorrere pochi chilometri. Tutti insieme, ma ognuno, rigorosamente per i fatti suoi. Con la sua musica, la sua stazione radio, i suoi colloqui al telefonino, i soli suoi pensieri. C'è la dolente percezione della moltitudine, intrisa di tacita rassegnazione. La descrizione di una somma zero. Il cumulo di energia psichica che si genera in questi non luoghi, moderni surrogati delle antiche agorà. Insieme il trionfo della mobilità, celebrato col suo peggiore corollario: lo sperpero del tempo, in luogo del suo guadagno, ottenuto a bordo di un veicolo capace di indirizzarci dove vogliamo. Disporre di una macchina diabolica che sia in grado di secernere, come da un enorme frantoio, la mole dei pensieri di tutti gli occupanti di queste distese di lamiera gommata che si dipanano dalla capitale, nelle prime ore del pomeriggio, cosi come all'alba. Avresti cosi modo di capire, che il livello di rassegnazione a sostenere una coda, passa dal desiderio atavico di mobilità, dalla necessità di indipendenza, dalla impossibilità di ricorrere ad un mezzo pubblico, non solo laddove questo latiti o sia insufficiente. Ci sono i modelli delle auto. La loro varietà testimonia la volontà di ciascuno di esercitare il suo gusto, in chiave di grandezza, modello, finanche colore della carrozzeria. La scelta dettata da un insieme di variabili (capacità di sostenere il costo d'esercizio in rapporto al proprio reddito), dal desiderio di apparire, ricorrendo ad una variante del ruolo che giocano i vestiti. Cosi ci hanno educato a venire su, regalandoci la convinzione di esser noi a scegliere. Prendendo per buone le lusinghe subliminali della pubblicità. Ma resta il fatto che su cento metri di coda, in quest'ultimi tempi, è aumentato a dismisura il numero di modelli. E questo può inficiare la teoria qua esposta. E' la quantità dell'offerta, come sempre, a determinare la varietà delle scelte. E' anche estremamente probabile che spingendo all'estremo l'offerta nell'ottica di enfatizzare la personalizzazione, si potrebbe assistere, nel volgere di pochi anni, ad una dilagante affermazione del modello individuale. Laddove questo, prima ancora che dar da mangiare ai sociologi accorsi a comprenderne i motivi, potrebbe semplicemente denunciare una comunione fra il gusto individuale e la modalità costruttiva de-serializzata.
La capacità di comprendere tutto questo è da considerarsi una conquista dell'uomo libero del prossimo futuro. La successione di punti. Il festival dell'individualismo che si inoltra, come un fiume in piena, nelle pieghe della vita di tutti i giorni, sulle strade.
Dove mi ritrovo adesso. Sotto una pioggia battente.
CIAK, SI GIRA!
4 giorni fa
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