09/04/09

Metabolizzare

Sono giorni, esattamente dalle tre e trentatrè di lunedi mattina che tento di elaborare e interpretare l’insieme delle sensazioni che questa catastrofe ha provocato.
Vissuta di striscio, la scossa al letto nel pieno di un incubo, è niente in confronto a quanto stanno patendo da quelle parti, conscio dell’effetto amplificante della tv (ah, questa capacità di delegare la vista a macchine impugnate altrove, da altri uomini), la tragedia del terremoto tento di metabolizzarla come posso, con risultati alterni.

La prima paura. Quella di “normalizzazione”. E’ in sé una cosa ambigua. Può rappresentare la capacità di sopravvivenza, il guardare oltre, il continuare la solita vita, immerso alla meno peggio nelle solite, identiche, cose di tutti i giorni. Dall’altra, l’indifferenza. Il chiamarsi fuori, fra poco, per dichiararsi arreso difronte al dolore, incapace di sopportare oltre, la vista di tanta devastazione.
La rassegnazione. Quel sentimento che rasenta l’impotenza davanti all’imprevedibilità. Tutto sembra procedere come al solito, poi, una notte, in una manciata di secondi, l’imponderabile, la rovina totale, la perdita di persone care, del totem casa, la propria tana, alla quale si attribuisce, in questo paese, un valore ineguagliabile.

Sospeso, ascolto le litanie dei rappresentanti del governo, le parole dei sopravvissuti. I loro sguardi, quegli occhi che dicono del baratro al quale hanno assistito, in diretta, spettatori favoriti dalla sorte della manifestazione della forza bruta della natura. E’ accaduto solo a pochi chilometri da qui. Potrebbe riaccadere altrove, con gli stessi effetti, forse meno forse più devastanti.
Non sono i danni materiali che mi incuriosiscono. Sono le migliaia di reset che questa gente dovrà, suo malgrado, fare. Ognuno con i suoi strumenti, ciascuno con il proprio spessore, la propria forza.
L’impeto a vivere. Le dottrine orientali leggono nell’incessante gioco delle cellule, nel loro sapiente ed inarrestabile gioco, la spinta della vita. Difficile attribuirgli una natura volontaristica, sembrano dirci che è cosi perché non c’è altro modo. Ma ancora, già solo il trovarsi a respirare, in piedi, nel silenzio assordante di un vicolo un tempo animato dalle voci che compongono la colonna sonora delle nostre giornate, osservare davanti ai propri occhi la rappresentazione concreta della devastazione, misurarsi con essa, e immagino, fare fatica a trovare un perché.
C’è resa, dentro, per non impazzire. Accogliere i frutti di un mistero, di un destino che si è abbattuto, indifferenziato, su ceti sociali, età, sesso, riducendo il tutto, d’incanto, nella porzione di un attimo, ad un brutale confronto con la fisica. Giù le sovrastrutture, solo il deserto.
Un deserto evidenziato dal silenzio, dal riverbero del vuoto dopo il tuono minaccioso che ha accompagnato la scossa. Il dolore muto. La difficoltà a capire. Il rinunciarci, infondo.

Attendere l’alba, forse un altro giorno di sole, fuori da una tenda. E leggere in questo valzer dettato dal sole, una maestosa replica infinita, insieme un bene enorme e una indifferenza, che ci fa più piccoli, stupidi attori sul palcoscenico di un’epoca. Questa, dettata dal più feroce zampata che la terra sia in grado di dare. E’ vita, e morte. Inestricabile.

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