E' una specie di incubo. Ma è l'incubo più bello di tutti i tempi. Quando scrivo, immaginare gli occhi, l'espressione, di chi legge. Non riesco a liberarmi da quest'ossessione. Eppure, si può dire che si tratta dell'apice della gioia, il suo punto più alto. La condivisione, e insieme, l'esser arrivato lì, nel territorio perfetto dell'assonanza, della comprensione intuitiva iper veloce. Cosi, tutte le ambasce, i crucci, le difficoltà, di colpo svaniscono, lasciando al loro posto la totale risonanza delle idee, la felice congiunzione dei punti di vista.
Scrivere è una malattia. A nulla valgono corsi, letture, discussioni, lampi. E' tutto un frullare di emozioni che la parola scritta fa fatica a contenere. E' necessario che si espanda, questo magma, che sbrodoli fuori dai confini imposti dalla fisica, arrivi oltre. La dove ad agire sono sensi che questo vivere d'oggi ha atrofizzato. Risvegli, allora. Lampi, a squarciare il buio dell'omologazione.
Sono in fase creativa. Leggo, mi informo, attingo, rielaboro, ognitanto (mica sempre) mi vengono idee. Ieri, mentre ero in libreria, mentre la moltitudine si accalcava intorno a Lansdale, mi guardavo intorno. Ero circondato da libri, infondo il mio tempio. Ho sfarfallato, Ho cominciato a pensare che tutti quei libri, una volta svuotato il locale dalle persone, dai loro rispettivi scaffali, potessero dialogare fra loro. Come se le loro storie, per lo spazio di una notte, potessero evaporare e fondersi, come indiani intorno ad un pow-wow, e ciascuno assimilare dell'altro. E sconvolgere finali, trame, sentenze. Come se dal minestrone di epoche, stili, soggetti, ne potessero nascere ogni notte, altre storie, contaminate, originali, interrotte dalle prime luci dell'alba, con l'avvento degli uomini delle pulizie. Un sabba. O un grande albergo, dove magari si piange un compagno (mai termine esaurito fu più appropriato) che ha venduto tutte le sue copie, e il dialogo, muto, fra loro...dov'è andato quello ? E' in ristampa, ha avuto culo. E i testi difficili, quelli che non tira giù mai nessuno, nemmeno per sbirciarne la quarta di copertina, e che magari sono allergici alla polvere, che impietosa, tradisce il loro status di testi impegnativi o per palati fini. E immaginare, per interposta persona le diatribe, anche lì, fra letteratura “alta” e quella “bassa”, d'evasione...(si, ma da dove ? dagli scaffali di una libreria ?), o le liti “in famiglia”, i bisticci fra le opere di uno stesso autore...”vuole più bene a me”, “no, non è vero, a te t'ha misconosciuto in tv, giusto poche sere fa...” e via cosi.
I libri che parlano fra loro stanno diventando il mio incubo.
Reclamano attenzione, se è vero che il subconscio ci disvela nel profondo, è molto probabile che faccio male a continuare a comprarli, ripromettendoli di leggerli, prima o poi. E' una forma elegante della loro vendetta, e insieme, il vagito indecifrabile, di quello che vuole venire alla luce, e al quale non ho concesso ancora il parto.
Scrivere è una malattia. A nulla valgono corsi, letture, discussioni, lampi. E' tutto un frullare di emozioni che la parola scritta fa fatica a contenere. E' necessario che si espanda, questo magma, che sbrodoli fuori dai confini imposti dalla fisica, arrivi oltre. La dove ad agire sono sensi che questo vivere d'oggi ha atrofizzato. Risvegli, allora. Lampi, a squarciare il buio dell'omologazione.
Sono in fase creativa. Leggo, mi informo, attingo, rielaboro, ognitanto (mica sempre) mi vengono idee. Ieri, mentre ero in libreria, mentre la moltitudine si accalcava intorno a Lansdale, mi guardavo intorno. Ero circondato da libri, infondo il mio tempio. Ho sfarfallato, Ho cominciato a pensare che tutti quei libri, una volta svuotato il locale dalle persone, dai loro rispettivi scaffali, potessero dialogare fra loro. Come se le loro storie, per lo spazio di una notte, potessero evaporare e fondersi, come indiani intorno ad un pow-wow, e ciascuno assimilare dell'altro. E sconvolgere finali, trame, sentenze. Come se dal minestrone di epoche, stili, soggetti, ne potessero nascere ogni notte, altre storie, contaminate, originali, interrotte dalle prime luci dell'alba, con l'avvento degli uomini delle pulizie. Un sabba. O un grande albergo, dove magari si piange un compagno (mai termine esaurito fu più appropriato) che ha venduto tutte le sue copie, e il dialogo, muto, fra loro...dov'è andato quello ? E' in ristampa, ha avuto culo. E i testi difficili, quelli che non tira giù mai nessuno, nemmeno per sbirciarne la quarta di copertina, e che magari sono allergici alla polvere, che impietosa, tradisce il loro status di testi impegnativi o per palati fini. E immaginare, per interposta persona le diatribe, anche lì, fra letteratura “alta” e quella “bassa”, d'evasione...(si, ma da dove ? dagli scaffali di una libreria ?), o le liti “in famiglia”, i bisticci fra le opere di uno stesso autore...”vuole più bene a me”, “no, non è vero, a te t'ha misconosciuto in tv, giusto poche sere fa...” e via cosi.
I libri che parlano fra loro stanno diventando il mio incubo.
Reclamano attenzione, se è vero che il subconscio ci disvela nel profondo, è molto probabile che faccio male a continuare a comprarli, ripromettendoli di leggerli, prima o poi. E' una forma elegante della loro vendetta, e insieme, il vagito indecifrabile, di quello che vuole venire alla luce, e al quale non ho concesso ancora il parto.
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