29/01/09

Brevi di cronaca


Ci sono, in queste giornate dove a malapena spunta il sole, delle notizie che hanno il potere di rimettere in moto la mia malandata fantasia. In genere si trovano nelle cosidette “brevi di cronaca”, come si chiamavano una volta, nella carta stampata, e che oggi rappresentano, come dire, un variopinto corollario delle versioni online dei più quotati quotidiani.

Cosi, sul corrierepuntoit, accanto agli “strilli” che riguardano le cose “importanti”, esistono dei brevi articoli di spalla, che condiscono e danno ristoro alla smodata curiosità del sottoscritto.
Alludo alla notizia, contenuta in uno di questi “lanci” che permangono online spesso solo per qualche ora e che se non fai in tempo mai ti potresti divertire nel leggerli.

Stamattina, ad esempio, è apparsa questa notizia, relativa alla scoperta di una minimedusa che, hanno appurato a Lecce (gran bel posto della mela), più precisamente nell'università, che è in grado di invertire il proprio ciclo biologico. Ora, motivi per accettare con composta rassegnazione l'idea di andarsene, un giorno o l'altro, da questo gioco non è che manchino. Anzi.
Quello che trovo sublime è che prima o poi si arriverà a smantellarne i segreti biologici più reconditi, magari ad appannaggio della multinazionale farmaceutica più attrezzata (e veloce), per renderli disponibili anche alla razza vivente più evoluta (cioè gli umani, sembra...).
Pavento un futuro nel quale chi avrà reddito avrà questa possibilità, anche a costo di annoiarsi, chi non ce l'ha, pazienza. Cosa c'è di tanto diverso ? Nulla, salvo il fatto che ritenere il peggior incubo della tua vita, che so, essere governati un giorno da un emulo di Hitler, sarà, come si dice in certi spartiti musicali, “ad libitum”, infinito, appunto.
In ognicaso, un qualcosa capace di togliere il sonno.

L'altra notizia è più allegra. Dovendone fare un post, lo intitolerei UNO DI NOI.
Il robot che abbiamo (come genere umano) spedito su Marte, anni fa, sembra stia perdendo la bussola. In senso letterale. “E' in confusione” recita lo scarno comunicato del centro spaziale che ha il compito di gestirlo. In pratica, non risponde ai comandi, o se lo fa, lo fa a modo suo, rivelando in questo, un carattere molto simile a quello del cittadino medio italiano (vedi alla voce statistiche europee sul numero di investimenti sulle striscie pedonali, evidentemente scambiate per motivi di qualche eccentrico writers dominato da una profonda e radicata nostalgia per le aste, di scolastica-dell'obbligo-memoria.). Il robot è la nostra quintessenza. Fa i capricci, in altre parole. Hai voglia a dirgli di puntare i suoi occhi (che voglio immaginare simili a quelli, languidi, di Wall-E) verso il Sole. Nulla, lui imperterrito punta altrove (e che diamine, almeno un paio di rayban, no ?)
Cosa possiamo fare ? Mandargli in differita (per forza, solo per arrivare lassù chissà quanto tempo ci vuole) le immagini, e i suoni, dell'imminente festival di Sanremo ? Obbligarlo a giocare con gli stampini sulla sabbia di Marte ? Mandarci altre istantanee di quei paesaggi per capire in che modo scongiurare che l'intera Calabria continui a franare (senza che SuperBertolaso possa farci nulla) ?

Comunque vada, fra una desolante presa d'atto dello stato di avanzata decomposizione della nostra convivenza, e il primo caffè della giornata, un valido antidoto alla tristezza, vuoi per l'involontario umorismo che si portano appresso, la lettura di queste brevi news, consente di sorvolare sull'annosa questione della polemica negazionista come su quella degli errori arbitrali che stanno pericolosamente condizionando il regolare (e civile) svolgimento del campionato.


Domanda: e su Gaza, e sul giorno della memoria non scrivi niente ?
Risposta: In chiave come solo lui può fare, consiglio la lettura di questo splendido post, ad opera del geniale Bandini.

20/01/09

Obama day
















La televisione manda le immagini della cerimonia d'insediamento. Se Obama fosse un venditore di auto (usate) non esiterei ad acquistarne una, da lui.


Ha il carisma di uno che ci crede. L'inflessione della sua voce, quelle pause non so quanto studiate, che già ci ha fatto conoscere durante il primo discorso di Chicago, la sera del 4 novembre scorso, ha il potere di garantire, a chi mastica poco l'inglese ascoltato come me, che se non tutto almeno una buona parte di ciò che dice sia sostanzialmente vero, sentito.

Ho apprezzato l'enorme farfalla di raso sul cappellino della Signora Aretha Franklin, subito dopo la sua voce intonata, nel gelo di una giornata insolitamente solare (erano previsti tuoni fulmini e saette) in quel di Washinton. In questo momento, dalla BBC, stanno mandando in diretta la promenade del corteo presidenziale verso la Casa Bianca, lungo un'affollatissima Pensylvania Avenue. Obama è sceso dalla limousine e sta percorrendo a piedi, mano nella mano con la consorte i metri che lo separano dall'ingresso, come lecito, trionfale, nella sua nuova residenza.
L'entusiasmo è incontenibile.



Verso le 18,15 mentre tentavo di trovare un canale nostrano che trasmettesse la diretta (l'ho trovato, ma solo sulla 7 dove almeno a commentare c'era Carlo Panella) ho fatto un giro sulle reti tv nazionali: niente. Solo una finestra in un talkshow, non ricordo più nemmeno su quale canale.
Avvertire che la cosa sottolinea, se ce ne fosse bisogno, tutto il provincialismo nostrano è pleonastico.



Non dico che l'evento avrebbe richiesto le reti unificate (quelle in forza di una vuota tradizione sono ad appannaggio del capo dello stato, la sera del trentuno dicembre), non dico nemmeno che la mancata visione della cerimonia sia cosa da togliere il sonno ai cittadini italiani, ma considerare la portata anche solo statistica della circostanza (un uomo di colore per la prima volta al soglio della presidenza di una grande potenza mondiale) avrebbe meritato ben altra attenzione mediatica. Probabile che i gestori dei palinsesti abbiano ritenuto più importanti altre trasmissioni o notizie, vedi la tarantella di Kakà (ho visto gente con gli occhi lucidi, ieri pomeriggio, quando la sua partenza dal Milan sembrava cosa fatta), o il colpo della Fiat che a costo quasi zero ha acquisito quote della Chrysler ed ottenuto, insieme, l'apertura del mercato USA alle sue utilitarie.



A noi che ce frega ? Con italico distacco diamo spazio al cicaleggio delle soubrette di ritorno, alle litanie del Grande Fratello (che, del resto, ora che ci penso, sarebbe anche un ottimo soprannome per il Signor Obama), o al gossip sulla marca di mutande del tronista di turno.



Certo, nulla da stupirsi, da chi ha commentato la recente mattanza di Gaza, come una banale questione di confini in qualche landa desolata. Da domani, il piglio professionale dei nostrani addetti ai lavori avrà altro cui dedicarsi, il nulla condito dal niente, col quale ci ammanniscono, da sempre, con un concetto di informazione tutto piegato alle logiche dell'audience.
Buono tu, buona la tivvù, che vuoi di più ?

17/01/09

E' morto Andrew Wyeth

Anni fa, rimasi inchiodato per non so quanto tempo, io che non vado particolarmente pazzo per la pittura, davanti a questo quadro, nelle sale del M.O.M.A.




Non sapevo nulla di Andrew Wyeth, chi fosse, cosa avesse dipinto. E’ stato un impatto emozionale.
Probabilmente la grande capacità di gestire la luce. I suoi quadri hanno le carte in regola per competere con le migliori fotografie, ritoccate come nessun photoshop sia in grado di fare.

Condivide questa maestria con un altro grande pittore americano, quell’Hopper che è la rappresentazione, pittorica, della più grande, struggente, malinconia.

Wyeth se ne è andato l’altro giorno. Aveva 91 anni. L’articolo che ne da la notizia racconta che per anni, ha usato come modella una sua vicina alla quale ha dedicato un centinaio di ritratti, senza che ne la propria moglie ne il marito di lei sapessero nulla.. Un grande.

Ho preso una cartolina, con quel quadro, e l’ho mandata ad una ragazza, di Roma, con la quale stavo.
E’ stato il mio biglietto d’addio. Ci siamo lasciati poco dopo. Quella ragazza, Christina, quella del quadro, ho saputo dopo, era una ragazza affetta da una forma di poliomielite. La posa, pertanto,
nella quale è ritratta, non è il risultato di una scelta estetica, ma è la risultante di un impedimento.
Le case, sulla cima della collina, la sua difficoltà a muoversi. Le guarda, da lontano, forse seduta a terra in attesa di riprendere le forze, mentre il vento, intorno, sferza il grano.

Non so. Mi lascia un gran senso di inquietudine. E me lo porto dentro come uno dei capolavori ai quali la mia fantasia deve esser grata.

Risorse:

l'articolo dal sito corriere.it: qui

il sito web di Andrew Wyeth: qui

Note sul quadro su wikipedia: qui

Note sul quadro dal MOMA: qui

16/01/09

Sette anime


Ovvero, quanto può essere forte il senso di colpa.

La storia: un apprezzato ingegnere provoca un incidente stradale, per distrazione, nel quale perdono la vita sette persone, fra queste anche la moglie.
Da allora inizia il suo personale calvario che lo porterà, per stadi successivi, alla redenzione.
Punto.

Non dico altro per no rovinare il piacere della sorpresa a chi vorrà andarlo a vedere.

Quello che mi interessa è indagare il prodotto-film.
Tralasciamo che sia stato Mccino a girarlo (sulla base, cosi recitano i titoli di coda, di una storia scritta da tal Grant Nieporte). Il montaggio è la chiave del film.
Va dato atto che il ricorso al flashback risulta molto misurato, quasi nullo. E qui sta una grande scelta stilistica di narrazione. In altri termini, l’impianto è cosi robusto da poter evitare di ricorrere ad espedienti narrativi per tenere desta l’attenzione dello spettatore. Cammina sulle sue gambe.
Unica pecca, il ricorso un po’ troppo ossessivo alla steady-cam, la macchina a spalla, che aggiunge spaesamento gratis alla storia, che come detto può serenamente farne a meno. Cosi come preziosismi si possono definire alcune riprese, non so come altro definirle, a multi fuoco. Il centro dello schermo è nitido, tutto ciò che è di contorno, nell’inquadratura, appare sfocato.
Peccati veniali, sui quale benevolmente si sorvola. Splendida la protagonista femminile, Rosario Dawson.

Il senso, comunque, del film è l’amore per il prossimo. Aiutare degli sconosciuti, foss’anche per una sorta di espiazione personale, e in tal senso, sarebbe da giudicare meno nobile ? E’ la capacità di spolverare questo sentimento in una accezione civile, più lontano possibile, da qualsiasi altra inevitabile connotazione religiosa. Gli altri, questa moltitudine sulla quale sbattiamo contro nei nostri quotidiani, gli altri che contengono, ciascuno, una storia, dietro la loro fattezza di “comparsa” cui il vivere d’adesso ci ha malamente abituati. E sono gli altri, la nostra redenzione. Coloro che non si aspettano niente da noi.
Il nostro dono, sarebbe, potrebbe essere, accorgersi che esistono. E’ un film, che forse, al di la delle sue stesse volontà, finisce con l’essere molto attuale. In questi giorni governati da notizie di guerre assurde, di gente che investe di tutto sulle strisce pedonali e che se la da a gambe, una parentesi di amore, di riflessione, sia pure nella vaghezza di un film, per quella porzione di tempo limitata, costretti sulla poltrona di un cinema, la storia ci regala un’altra prospettiva, in modo drammatico, cruento, e moderatamente, soprattutto credibile di occuparci della nostra esistenza. .

La vita, allora. Quel ticchettio più o meno ordinato del nostro cuore. Che richiede a gran voce di sfuggire dalla dimensione biologica alla quale abbiamo finito di inchiodarla, per ricordarci che c’è dell’altro. Altro che è capace di svelarsi, posto che si lascino, ciascuno, le lenti deformanti dei rispettivi occhiali. E rimanerne accecati per poter andare avanti, con maggiore leggerezza, e perché no ? anche con un tre per cento, di maggiore felicità.

Da vedere.

12/01/09

Cose che mi erano sfuggite.




E' fatale. A volte le cose mi passano accanto e non me ne accorgo. Succede.
Poi un giorno, magari sentendo per caso una canzone alla radio, tornano in mente e le riconsidero.

Parlo di una canzone, Bette Davis eyes, che cantava tanti anni fa una certa Kim Karnes. Poi, per caso, mi sono imbattuto nella versione cantata da Gwyneth Paltrow. E' un'attrice, d'accordo, ma a meno che non sia stata doppiata, ha anche una voce da incanto. Come dire, quando l'avvenenza si sposa con la bravura. Insomma, la Paltrow canta questa canzone nel film Duets, girato dal paparino, Bruce Paltrow.


Il film, per un insieme di motivi non sono riuscito a vederlo finchè ha girato nelle sale. L'ho richiesto giorni fa, incuriosito, alla mia amica che gestisce un noleggio di dvd. E me ne ha fornita una copia in VHS.
L'ho potuto vedere, nelle umide, interminabili, giornate di riposo fra Natale e la Befana.
Mi ha sorpreso. Pensavo al solito filmetto furbo americano, vagamente musicale, come lasciava inturire il titolo....stavolta non tradotto malamente (cosa nella quale siamo campioni), duets, duetti appunto, in ispecie quelli canori.

Cosi, a fare da sfondo, anzi elemento perno è il canto, il karaoke (le cui pagine più belle le ho potute trovare in questo blog....). Ci sono tre coppie. Sei esistenze, ci sono le strade, le città americane. Che da sole possono “tenere” un film...o quasi. E' uno spaccato gustoso e tragico della vita di background, che devono svolgere qualche milione di persone da quelle parti.
C'e' il venditore impazzito, padre di famiglia, esaurito da continui sali e scendi dagli aerei, per tenere meeting per conto di una grossa catena immobiliare...”I prospect per gli sviluppi edilizi nelle Everglades sono incoraggianti”...”Signore, ma qui non siamo in Florida” “Ah no ? E dove siamo ?”.


Troverà il modo di scappare da tutto questo, complice una sosta in un albergo di quart'ultima nel quale una donna, per gioco gli da delle pillole..."disinibitorie", grazie alle quali troverà il coraggio di salire sul palco, intonare un “classico” e lasciarsi stregare dalla magia del karaoke.
Un evaso, di colore, farà coppia con lui e connoterà, dal punto di vista narrativo, la storia di venature noir. Un road movie, scandito da belle canzoni, alcune delle quali eseguite da un improbabile Huey Louis, (si, quello che cantava It's the power of love, con il suo gruppo The News...) che sbaraglia tutti gli altri concorrenti appena prende il microfono in mano ed inizia a cantare.

La Paltrow, nel film, è sua figlia. Alla fine concorreranno insieme, tentando di ricostruire un rapporto eroso da anni di lontananza. E ancora una coppia con lei, mezza prostituta, e lui tassista e bravo ragazzo. Insomma, un gioiellino, che a tratti ti sprofonda nel mood della provincia anonima e inondata a forza nel grande sogno americano.

Diventeremo un mega centro commerciale” dice lo sconsolato protagonista, ad una moglie incredula e ben pensante, preoccupata per i cambiamenti del marito, fino ad allora stimato venditore immobiliare e tipico esempio dell'americano della middle class.
Bello, da consigliarne la visione. (non senza essersi fatti prima due sonore risate sui post sul karaoke di eCarta).



Risorse:

I post sul vademecum Karaoke di eCarta sono 4
1) Primo
2) Secondo
3) Terzo
4) Quarto

la clip su youtube http://www.youtube.com/watch?v=Wbg2l2fKF7Q

la scheda del film: by Morandini http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=29338&morandini=1

La Paltrow che canta Bette Davis Eyes (e che mi fa morire, per la voce...stentorea ma estremamente sexy: il giorno che dovesse mollare il tipo dei coldplay con il quale è maritata...pur di sentirgliela cantare, al risveglio, ogni mattina, sarei disposto a fare follie....)http://www.youtube.com/watch?v=aQGyTKoByWc

06/01/09

Lo schiaffo e la macchia

Vorrei scrivere una storia che preveda questa situazione.
C'e' una coppia che sta mangiando, seduta ai tavoli di un ristorante. Sono amabilmente impegnati in una conversazione, fra una portata e l'altra. L'ambiente è glamour quanto basta, da un tavolo accanto una donna che sembra non vada da un parrucchiere da un semestre sta magnificando le lasagne di una formidabile zia Marcella. I due sono troppo occupati a rassicurarsi a vicenda per prestarle ascolto. Lunghi, intensi sguardi interrotti da sorrisi da depliant ortodontico. Probabile stiano alla frutta.

Nel mentre, una ragazza, dai capelli rossi, avvolta in una mantella nera (magari è inverno, magari fa freddo e piove pure) a passi decisi si dirige verso il tavolo dei nostri, che non la degnano di uno sguardo, presi come sono nel loro clinch a decidere chi deve scendere per prima dalla loro storia.
La donna dai capelli rossi arriva davanti al loro tavolo. Alzano lo sguardo per cercare di capire cosa vuole, e la donna dai capelli rossi molla un sonoro ceffone all'indirizzo dell'uomo, facendogli volare gli occhiali qualche tavolino più in la. Poi, senza dire una parola, cosi come è arrivata, si gira e torna da dove è venuta.
Da qui parte la storia.

Indizi: nel ristorante, di sottofondo, c'è in quel momento un brano dei Ramones, Pet Cemetery.
(No, lui non è un veterinario che non è riuscito a salvare la gatta della ragazza coi capelli rossi).

Fuori dal ristorante non è parcheggiata alcuna bat-mobile, c'è solo un taxi, con a bordo l'autista, un cingalese paziente che sta leggendo l'ultimo (e per ora unico) libro di Paolo Giordano.

I camerieri del ristorante hanno un'aggiornatissima rubrica con i cellulari dei più quotati paparazzi della città, ma dai loro tabulati, si scoprirà poi, non è partita alcuna chiamata verso nessuno di questi.

La donna che è seduta al tavolo non è omosessuale e non ha mai visto prima la ragazza coi capelli rossi.

L'uomo che ha ricevuto lo schiaffo propende per il più classico “errore di persona”, mentre con nonchalance, sta cercando disperatamente di ricordarsi dove e quando abbia mai visto la ragazza coi capelli rossi. Senza trovare alcun riscontro. Intanto, mentre versa il vino alla donna ancora allibita per la scena, si tocca la guancia, che è rossa. A giudicare da quanto è nervoso, gli trema anche la mano e ne rovescia malamente un po' nei pressi del suo bicchiere.
La macchia si allarga lentamente sulla tovaglia bianca, in aperto contrasto col ritmo della canzone dei ramones.

Nel tempo che la macchia impiega ad allargarsi sulla tovaglia, lui ripercorre mentalmente tutte le volte che è uscito a cena con lei e che non è mai stato preso a schiaffi.
Quella macchia che si allarga, narrativamente, è la chiave di tutta la storia.
Può funzionare da digressione, e regalare altri connotati al racconto.
Insomma è una situazione limite, che mi è venuta spesso in mente, fuori a cena.
Un giorno, ci devo proprio scrivere una storia sopra.

03/01/09

Che ne è stato di te, Buzz Aldrin ?


L’altro giorno, credo fosse il 31, sono passato davanti ad un’edicola e ho chiesto la Stampa.
L’avevano terminata, cosi ho ripiegato sul Corriere. Non ho fatto male, perché nelle pagine centrali della Cultura, c’era questo articolo qui, a firma Paolo Giordano.

Poi ho raggiunto casa di un amico, poco distante da Roma, e lì, la mattina del primo gennaio, mentre ancora tutti dormivano, e fuori veniva giù che era uno spettacolo, ho letto l’articolo.

Ora, al di là della recensione, al di là del libro (che comunque, non foss’altro che per curiosità, mi riprometto di leggere, prima o poi), a me il nome “Buzz Aldrin” provoca emozioni molto forti. Basta già solo questo, sebbene nel libro in parola venga scomodato per il fatto di essere stato il secondo a calpestare il suolo lunare (ma, in compenso, il più fotografato, almeno mentre erano lassù).
Non so come spiegare. E’ qualcosa che attiene alla mia adolescenza, a quella magica notte di giusto 40 anni fa, è assistere con tutto il bagaglio di conoscenza che può avere un ragazzino di tredici anni a qualcosa di strano, inimmaginabile, assolutamente inedito e che ti può, in modo irrimediabile, aiutare a formare dentro di te un disastroso senso del mito.
Il termine disastroso non è esagerato. Fa riferimento alle scarse difese che può opporre alla fascinazione di una cosa del genere, la testa di un ragazzino, ancora presa dalle tipiche cose che facevano i ragazzini in quegli anni (il cosiddetto sessantotto è stata sostanzialmente roba d’altri).

Giusto un paio d’anni fa, aggirandomi in una libreria salentina, in cerca di qualcosa che potesse solleticare la fantasia, mi sono caduti gli occhi (pessima espressione…concordo) sulla copertina di un libro “Polvere di luna: la storia degli uomini che sfidarono lo spazio” a firma Andrew Smith, Cairo Editore. Ho ritenuto congruo l’importo di diciassette euro, e devo dire che non me ne sono pentito. Si tratta di un lavoro, steso da un giornalista, forse quasi mio coetaneo, che partendo dalla mia stessa curiosità (e sicuramente con ben altri mezzi) ha saputo riannodare le fila delle esistenze di quella dozzina di nostri simili che hanno, ad oggi, compiuto qualcosa di decisamente straordinario. Cosi, se li è andati a cercare uno ad uno. E il libro è la storia di questi incontri, e anche di più: storicizza, ricolloca fatti, tensioni, film, gruppi musicali, che hanno condiviso quell’epoca che oggi appare cosi lontana, tanto da essere quasi legittimati a pensare che non sia mai esistita, e che ci si rapporti ad essa in termini di leggenda.

La rete ha fatto il resto. Basta lanciare un search su google, per rendersi conto della quantità di siti che, a vario titolo, annoverano detrattori o fanatici dell’evento. Ricordo una soleggiata mattina all’Eur. Nel riflesso bellissimo che hanno i travertini dei palazzi, baciati dal sole della mattina, c’erano, custodite dentro un teca in vetro blindato, delle pietre. Sassi che provenivano dalla luna.
Rimasi a guardarli come se non ne avessi mai visti altri, nella mia, fino ad allora, giovane vita.
Ed è una cosa che è fortemente legata all’emozione, come detto, e quindi quanto di più lontano dalla capacità di un discernimento obiettivo.
In sintesi: l’aura che avvolge, ai miei occhi, tutto ciò che a che fare con quest’impresa, e che in modo non troppo complicato si intravede addirittura dall’immagine che campeggia su questo blog, mi autorizza a credere che di questa storia è bene che se ne parli. Che non finisca nel dimenticatoio delle nostre esistenze attualizzate, al meglio, dai freddi resoconti di viaggi interstellari di macchine, baccello inanimato cui abbiamo delegato, per evidenti limiti di tempo, il compito di continuare ad esplorare.
La sonda Cassini, la gippetta su Marte, sono i moderni surrogati dell’ansia di capire che doveva aver mosso anche un distinto signore, tanti, tanti anni fa. Che aveva un cane di nome Argo, e una donna chiamata Penelope.
E la nostra sete di conoscenza che non conosce fontana capace di placarla.

Ascensione, seduzione, comunione

Bandini è una specie di mito. Il suo blog (linkato qui sotto) è uno di quelli da cui passo quasi ogni giorno, per farmi di ironia intelligente. E' creatore di qualcosa che somiglia a una di quelle "strip" che pubblicano i quotidiani, in genere subito dopo le pagine che parlano di borsa. Cosi, per ritirarsi un pò su, le sue scenette sull'ascensore con una donna (sempre la stessa) che sostiene di abitare al quarto piano dello stesso palazzo e che il nostro spergiura di non aver mai incontrato prima, ogni volta, danno vita a dialoghi surreali. Pillole, piccole isole nel mare magnum della follia condominiale, popolata di flash vagamente scaturiti da una libido malandata e a stento repressa. Ecco, questa è una "scenetta" che mi sono divertito a scrivere io, rubandogli il tema...

(di Cletus)
by blogghino (07/01/2005 - 12:55)
Prima o poi doveva succedere. Cletus si è imbattuto in un ascensore, mentre io sono finito in una delle sue cabine telefoniche. Questo è il parto della sua mente:

L'androne del palazzo è come un capitolo d'inizio di un brutto libro di racconti dell'orrore. Allan Poe però dev'esser stato distratto da qualcuno al telefono mentre lo progettava, cosi, fra piante di agave inconcludenti e motivi liberty e art decò alle pareti, e quelle appliques…oh no. Chiamo l'ascensore (tassativamente in ferro battuto nero e vetro, molto belle epoque), rimanendo colpito dalla bottoniera in madreperla. Lei sale ? mi chiede un'avvenente signora sulla quarantina.Sto per risponderle…perché questo arnese può anche andare all'inferno ? ma mi trattengo, in fondo il suo tono è gentile, seppure dietro la formalità della situazione.Certo, dico.A che piano va ? Non l'ho mai vista. Dice sorridendoNon lo so, rispondo.Lei è un uomo solo ?Come dice ?Intendo, sta venendo a trovare qualcuno ?Beh, diciamo me stesso, Signora. Dico, convinto che non la possa capire.Eppure ho l'impressione di averla già vista. Dice.Si ?Si, sono molto fisionomista, dice appoggiando le buste della spesa…[l'ascensore lento come un cammello alla parigi-dakar sta mettendoci un'eternità per arrivare].
Si, gestisco una sala corse. Dico tanto per dire,cosi…la prima che mi è venuta in mente.
Adoro i cavalli, dice sospirando.
Ci gioca ? azzardo…chissà, è pur sempre un vizio, l'indizio di qualcosa di vivace fra i neuroni.
No, si figuri.
L'ascensore arriva a dissipare un due per cento d'imbarazzo insinuato nel tono del suo diniego. Questa donna mi piace.
A che piano ?
Al quarto, dice.
Bene, anch'io.
Ma a quel piano abito solo io, obietta.
E allora ?
Non ci conosciamo, dice.
Piacere, Ermete Dossi. Dico
Nadia Drollini, piacere.
La sua stretta di mano è sensuale.
Lei ha un blog ?Eh ?Intendo…bah, no, lasciamo perdere.
Ci vuole fegato a salire in un ascensore con uno sconosciuto, no ? dico sorridendo
Trova ? il mio psicanalista dice di aprirsi agli altri, invece, alla vita.
Ha ragione
Intanto l'ascensore ha richiuso le porte, a vetri e in ferro battuto, ma non da cenni di volersi muovere.Secondo lei è guasto ?Cosa ? Il nostro vivere ? azzardo.Macchè, non quello, parlo dell'ascensore. Dice.Credo di si.Non mi darebbe una mano a portare su questi sacchetti della spesa ?Certo, e prendo su le sue buste, pesantissime.Mi precede per le scale, ha un bel culo.Arrivati al terzo piano, assistiamo all'ennesima beffa del destino, l'ascensore arriva al piano si ferma e si aprono le porte da sole, come ad aspettarci.

Ci guardiamo increduli. Sono brachicardico, dalla nascita, lei invece ha un colorito marcato sulle guance e un respiro affrettato.Per un piano ? mi dice come proponendomi un giro sulla giostra appena fuori il paese, appena vicino alla scuola, appena vicino alla nostra infanzia, che voglio immaginare più allegra.Ma si.Entriamo, domanda di rito, surreale e demenziale insieme…A che piano, Signora ? (ponendo in quel signora tutta la sensualità di cui sono capace, ossia poca).Quarto, anche lei ? (sta al gioco…è fatta)Si rispondo mentre schiaccio il pulsante.Stavolta l'ascensore si avvia, e nella manciata di secondi che impiega per salire di un piano, è come se precipitassimo da un deltaplano a due posti sul mondo intero, su vallate verdissime, su oceani infiniti, su metropoli caustiche, su tutti tutti tutti gli attimi della nostra, ineguagliabile, vita.

Arriviamo al piano, apro le porte dell'ascensore…Faccio strada, dico.Grazie, sussurra.Arriva davanti alla porta di casa, infila le chiavi in un sol colpo nella serratura, ormai la tensione è alle stelle si gira e con tutta la grazia del mondo mi dice, Ermete hai dimenticato le rose !Guardo la scritta sotto il campanello: Drollini Dossi. Non cambieremo mai, penso mentre entriamo in casa. La nostra.