23/01/10

Compendio di geometria. Intro.


La zona serena dell'anima ha una forma circolare.

In qualche modo, la dentro, è tutto perfetto. Equidistante dal centro, tutto, di colpo assume la stessa importanza. Forse, in nuce, l'idea stessa della democrazia. L'incarnazione geometrica del concetto di pari opportunità. A metter mano, ogni affanno presenta lo stesso grado di difficoltà. Ogni gioia è pari all'altra. Non prevale nessuna. Nel caleidoscopio delle emozioni, indistinte, tutte baciano la fortuna in egual modo. Geme solo l'ansia di un riscontro. Vittoria spicciola di qualsiasi teorema di seconda mano, che si avvale del primo su cui poggia, e a cascata ne deriva con il sapore del già visto.


E di teoremi, spiccioli o complessi, comincio ad averne abbastanza.




Mi ha sempre affascinato, la regola aurea. Distillata, in natura, finanche nella disposizione e nella dimensione dei petali di una rosa. Roba da mandare via di testa, d'accordo. A dar retta a tutto, diventa, geometricamente, un impegno infinito. La coesistenza allora. Bagnarsi alla fonte dell'umiltà, concedendo possano coesistere più assiomi. L'uno senza smentire l'altro, ciascuno con la sua porzione di verità, se non assoluta, anche bene relativa. E' cosi che son scritti i manuali di geometria. E alla fin fine, è dei rapporti fra le cose, con la loro rappresentazione fisica, la loro interazione, che si occupa l'ultimo di questi. A dirci a quale legge ubbidiscono, o potrebbero farlo, dimostrandolo, se occorre, e fornendone un'interpretazione, con l'ansia della regola.


Riconoscere all'interno di questa relazione, le leggi che si attagliano, accomuna il geometra al magistrato. Entrambi, applicandole, soddisfano e giocano, come fossero tessere di un puzzle, fino ad allora smarrite, con le quali ultimare dei capolavori di pazienza, a piegare la realtà all'interno di uno schema.




Il grande bug, sta nel perdere la fiducia in questo paniere di schemi. Aprire la mente, verso la prateria della tolleranza, concedendo che altre, e non solo queste, siano le sirene cui prestare ascolto, un balbettio che si schiude alle infinite possibilità di interpretazione, come sfida, o evoluzione naturale di enti ideologici, troppo adulti per recitare come un mantra leggi, cui si vuol smettere di prestare ascolto. Sollecitati a farlo per non soccombere, in un ingrigito e rassicurante, coacervo di assiomi che si son presi la briga di adattare la complessità del mondo, all'interno di narcotici sistemi di lettura.




Celebrare l'apostasia, questa la scommessa. Fuggire da Pitagora, dimenticare Euclide, e prendere un monocamera nei dintorni di Houston, confidando in un passaggio, prima o poi.





17/01/10

Domeniche

Un cortigiano. Anzi no, un giullare alla corte di qualcuno.


Passare una domenica pomeriggio sbracato sul divano, vedendo la partita della Roma, mentre fuori il grigio si impadronisce di tutto. Tempo fermo, nonostante tutto.

E la domenica passata cosi, dicono, dovrebbe servire a ricaricare le batterie, pronto per una nuova settimana. Corse, soldi, cose da pagare. Intanto il tempo passa, e in questa stasi, in questo momento fermo, manifesta tutta la sua fuggevolezza. Ansia, nient'altro. Forse irretita appena da musica di grandi orchestre, che danno l'illusione, per un momento, di trovarsi altrove, magari passeggiando in doppio petto sul ponte di una di quelle navi che solcavano gli oceani, negli anni venti, respirando la brezza del mare, a pieni polmoni.


Invece fumo dal camino. Aria chiusa, che ogni tanto provi a rinverdire spalancando qualche finestra e lasciando che gennaio entri e si posi sulle cose. Sulla pila di giornali mezzi sfogliati che campeggia sul tavolo, ingombro di bicchieri vuoti, bottiglie di minerale, pacchetti di camel senza filtro, mozziconi.


Aspetti, in altre parole. Non si sa bene cosa. Sai perfettamente che non c'è nessuno da aspettare. Forse solo che si faccia notte e che la sagoma che hai lasciato sul cuscino accolga nuovamente la tua nuca, per un certo numero di ore. Fino a che sarà domani, ancora una volta.


Ecco, è questa successione di giorni a dirti, più di ogni altra cosa, che la vita è irripetibile, che sebbene forzata all'interno di riti, prassi, tic ed abitudini, ti sfugga da sotto il culo con un eleganza rara, indisturbata. E ti ritrovi con una figlia grande, davanti alla quale fai fatica a sentirti ancora come il suo padrone assoluto, com'era quando era piccola e le cambiavi, al mattino, i pannolini.


Passa, allora, passa tutto. I tuoi occhi rapaci si abbeverano di pagine web, di articoli sleggiucchiati qua e la, sostanzialmente di niente. Eppure, non hai voglia di crocifiggerti. Non hai voglia di prendere a prestito la prima stronzata ti passi in testa, come andare a passeggiare da solo, sulla spiaggia di gennaio, o in pineta, magari respirando quell'odore buono, di aghi di pino bagnati, che marca in modo indelebile questa stagione.


Tenti con un film, magari qualcosa in dvd. O in giro fra i vari canali satellitari. Ma non ti attrae nulla. Perchè è forte la sensazione del dovere. Del dovere per forza fare qualcosa, mentre è di niente che hai voglia. Un crogiolarsi nell'indulgenza, verso se stessi ed il mondo tutto. Perdoni, quando sei in questo stato d'animo. Perdoni tutti, indistintamente. Il direttore di banca che ti tiene sotto controllo il fido, la tua ex moglie che da vera ex sta tentando di studiare quale dev'essere la maniera migliore per relazionarsi con il padre di sua figlia, la tua fidanzata che non perde la speranza di cambiarti, e ancora i fratelli, che non vedi cosi spesso, e i colleghi o i superiori che non mancano occasione per complicarti la vita. Hai un sussulto di dolcezza verso tutti costoro. Non recrimini nulla, consapevole che già l'attrezzare un odio, foss'anche di seconda mano, comporta fatica. Lasci che sia. Che il gioco vada avanti. Non sarà la prima ne l'ultima domenica che passi cosi.


E intanto fuori piove.



14/01/10

Non ci sono italiani

Scorrono sul video le immagini del disastro di Haiti. In un'ipotetica classifica dell'orrore, credo una delle tragedie di proporzioni tali da meritarsi la pole position. Non è che l'ultima, delle sventure cui i nostri simili, e la natura, ci hanno abituato, con frequenza impressionante.


C'è un vizio, non so se solo nostrano, nel mondo dell'informazione. Quello di fare riferimento, in un impeto da appello da caserma, al numero di connazionali malcapitati, in questa come in altre sventure. C'è un uniformarsi preoccupante, nel modo di comporre i titoli di testa (che poi alla fine, credo si chiamino cosi proprio perchè è lì che mirano, che fanno più danni). Non ci sono italiani.

Ah, beh, allora tiriamo un respiro di sollievo, non ci sono nostri connazionali, possiamo passare alle brevi di cronaca, o alla lista dei trans, negli annunci economici, che ricevono in casa.

La cosa è meno ilare di quanto sembra, trattandosi di cosidetti “mass-media”, e una qualche responsabilità, con questo modo di titolare, qualche danno, di sicuro, lo producono.

Non ci sono italiani, dovrebbe essere la tipica notizia consolatoria. Cioè, si, è successo un disastro, è vero, ma non ci sono italiani. E se c'erano, erano pochi pochi. Questo modo di titolare porta con se un germe molto negativo. Quello di ritenersi “diversi” (ma in cosa ?) in quanto esseri umani dotati di un documento che ne qualifica l'identità, sul quale alla voce “nazionalità” è seguita la parola “italiana”.


Sembra come se davanti a questa discriminante, il dolore abbia l'obbligo di fermarsi, di contenere quella commozione, quel dolore per il dolore altrui che ancora ci qualifica come esseri senzienti, e in barba (o in ossequio) al mito della diversità, stabilire con esso, un rapporto del tutto speciale.


Che culo, ahò, non ci sono italiani. Come se poi degli italiani ce ne fottesse davvero qualcosa. Non sono gli stessi con i quali ti mandi amichevolmente al diavolo per questioncelle di precedenza (fossero per strada, o in coda, che so, alle casse di supermarket, come a quelle di un qualsiasi ufficio postale). Però, non ci sono Italiani, ragazzi.


Lo trovo avvilente. Il concentrato, la rappresentazione concreta del concetto di sovrastruttura. Al motivo scatenante, la scossa tellurica, gliene poteva fregare di meno del colore della pelle, del campanile all'ombra del quale abbiamo avuto i natali. E per paradosso, sono queste le tragedie che dovrebbero indurre un po' tutti a riconsiderare in maniera robusta la propria e l'altrui esistenza, in rapporto con gli altri.


Con gli altri si muore. La morte collettiva, il dramma collettivo, scoppia una bomba, non ci sono italiani, viene giù un tupolev, non ci sono italiani, esplode un vagone cisterna carico di gas, non ci sono italiani, e se c'erano erano pochi, ma pochi pochi.


A me, come essere umano, come cittadino del mondo, da fastidio una notizia cosi. A me, come essere umano non interessa stilare una competizione della commozione, legata al luogo di nascita.


A me, in ultima istanza, st'informazione cosi fa profondamente paura.

10/01/10

Rivoluzione, ma alla radio.












E’ fatta, da lunedì con gran sfavillio di voci e luci, la radio nazionale, con la motivazione di cercare di riguadagnare ascolti e rinverdire i magri introiti pubblicitari erosi da più aggressivi network, ha deciso di rifarsi il look e chiamare a sostegno un nutrito gruppo di “soliti-noti”.

Sulla capacità di fare cassa dei “soliti-noti”, devono aver preso spunto da quanto avviene nel mondo dell’editoria: basta farsi un giro fra i banchi di una qualsiasi libreria per accorgersi che l’ansia di apparire genera volumi su volumi, e che le vetrine sono invase da testi (scritti da loro ?) di calciatori, cantanti, nani e ballerine. Non paghi della visibilità di cui godono in tivvù, dei prestigiosi cachet che gli giungono da spot che non disdegnano di fare, ce li ritroveremo, da lunedì, anche alla radio.

Singolare, come detto, la motivazione di questa che con molta enfasi è stata chiamata “rivoluzione”:
gli ascolti calano. Ecco quindi che l’idea di ricorrere ai volti noti, deve essere apparsa come quella di chiamare i ghost-busters in una città invasa dai fantasmi.

Sono un consumatore occasionale della radio. Quando sono in auto, nell’allegro traffico della città, ricorro a questo strumento per tentare di lenire il giramento di coglioni. Evito però accuratamente di farlo intorno alle 15 di pomeriggio. E questo per fare si di non farmeli girare a velocità stratosferica.
A quell’ora, su radio uno, ci sono due personaggi (di cui uno abbondantemente in pensione già da anni e ansioso di portare la minestra comunque a casa lo stesso, a sera, della serie “non siamo un paese per giovani”) il cui umorismo può esser definito con molta generosità “da caserma”, se la ridono e se la cantano, in un festival di doppi sensi, trivialità, presunte battute intelligenti, al punto che devo spegnere la radio e corroborarmi con del sano blues, magari di qualche cd o su altre stazioni.

Perché mi ostino a sentire la radio ? (in particolare radio uno). Semplice, ci sono i notiziari sul traffico ed è l’unica che, grazie ad una tecnologia di cui ormai dispongono anche i cocomeri, è capace di silenziare qualsiasi altra attività dell’autoradio per consentire di ascoltare “Onda verde”.

La radio, ho letto, conta circa 6 milioni di ascoltatori al giorno. La rete di punta è Radio Uno.
Radio due è stimata settima (nel corrispettivo dell’auditel televisivo), rai tre è la radio “culturale”, non la disdegno, e anche su questa i rampanti dirigenti Rai hanno intenzione di operare forti correzioni ai linguaggi, cercando di renderli meno “solipsistici”, come si usa dire adesso.

Entro il 31 gennaio la Rai vuole circa 110 euro da me, come da milioni di altri concittadini. Va bene. Nulla mi riesce a fare incazzare di più come la consapevolezza che codesti soldi vadano a remunerare gente che non sfigurerebbe nelle più sfigate radio private di periferia. La ciliegina sulla torta è la speranza che costoro siano anche in grado di “alzare gli ascolti” (leggi: attirare sponsor e generare altro utile).

Domanda, cosa c’è di servizio pubblico in tutto questo ?

05/01/10

Billy. Aldo Grasso e l'Ikea

Gustosissima la polemica scatenata fra Aldo Grasso e il giornalista Marco Frittella in merito al nome della rubrica (Billy) del TG1, in onda in coda all’edizione delle 13.30 della domenica, quando, intenti al pranzo domenicale, intorno al tavolo siede la famiglia (per chi ce l’ha) e massima dovrebbe essere (non ho i dati auditel) l’attenzione in quel momento.

Certo, qualcuno potrebbe opinare che fra un bucatino all’amatriciana, o fra un ossobuco, e un bestseller promozionato in tv, ce ne corre. Eppure, nel grande flop costituito (fin qui) dal modo col quale è stata approcciata la lettura dalla televisione, non mi sento di condannare del tutto un tentativo cosi lodevole.

Piccolo passo indietro. La genialata (chiamiamola benevolmente cosi) di parlare di libri all’ora del pranzo della domenica, all’interno di uno dei tg di maggior ascolto nazionale, ha visto la luce durante la “reggenza” di tal Riotta Gianni (attualmente approdato alla direzione del Sole24 Ore).
A fronte degli orari di minatori, coi quali la concorrenza replica (il TG5 sciorina il buon Gallucci a tarda notte, concedendogli due minuti che egli utilizza facendo sedere innanzi a se un autore e tenendo caldamente nelle mani il volume, spesso l’ultima opera appena data alle stampe e parlando del libro con toni sobri e volutamente concisi).

Billy sembra più una rubrica di servizio. Non entro nel merito dei gusti coi quali vengono selezionati i testi, ma apprezzo il tono sobrio e non trombonesco o affettato da addetti ai lavori (che in genere, ancora non l’hanno capito, funziona esattamente all’opposto: il pubblico, scoraggiato dai paroloni, rifugge come la pesta nera l’invito alla lettura preferendo di gran lunga attività più amene).

Cosa è successo ? Invece di interrogarsi sull’esigenza (o i più curiosi, sull’utilità) di una simile rubrica, posizionata strategicamente a quell’ora, la polemica (che porterà a più ascolti ? visto l’effetto moltiplicatore del buco della serratura) è scaturita dal fatto che il critico televisivo Aldo Grasso si è soffermato sul perché sia stato scelto di chiamarla Billy (quella di Riotta aveva il più ricercato Benjamin, ma questo non lo esentava dal spararle grosse comunque). Frittella si è inalberato e pur senza nominare l’IKEA (che a catalogo propone un’omonima libreria molto minimalista), ha detto che si, diobonino, si riferiva proprio a quella.

Beh, c’è voluto il buon Grasso per scoprirlo, a me ad esempio non era proprio passato per la testa potesse provenire da lì. Billy suona bene, e potrebbe chiamarsi benissimo cosi anche la trasmissione, in diretta, dell’estrazione del lotto, per dire.

Il fatto che sia polemica su presunta pubblicità occulta o meno, non sposta di una virgola quella che considero, a prescindere dalla qualità di ciò che sciorina, un nobile tentativo di portare l’oggetto libro in tv (anche se, come sempre, con un coraggio da conigli) e da apprezzare soprattutto per la visibilità dovuta all’ora..

Leggere fa bene, e un buon libro può essere, in virtù dell’orario, un ottimo digestivo, se non proprio del pranzo almeno di uno scorcio della propria vita.

risorse:
qui tutta la saga: articolo del 30 dic. 09 di Aldo Grasso (che ha dato il via al bisticcio tutto mediatico).

qui sempre Aldo Grasso (che ospita la replica di Frittella al suo precedente articolo e rilancia).