04/06/13

Il valore di una fotografia.















Monica(*) mi chiede qual è per me il valore di una fotografia.

Beh, dipende dal soggetto. In questo caso sto parlando di una foto che non ho scattato io. Ma altri. E che raffigura altre persone (conosciute e non, parenti e non). Oppure luoghi, una luce, uno scorcio. Qualcosa di inusuale, sul quale magari hai gettato un’occhiata distratta tante volte ma che solo l’occhio di chi l’ha scattata,  in quel momento, con quella luce, rende speciale, nuova, ti colpisce.

Ecco, per me la fotografia è innanzitutto dialogo. Può sembrare paradossale: ma come? Da un’immagine statica tu ricavi un dialogo? Si, naturalmente, se questa è capace di lasciare libera la mia fantasia di interpretare il senso. E quasi sempre è cosi. Viviamo di interpretazione e non è affatto detto che un’immagine non sia in rado di suscitarla. Cosa c’e’ da interpretare. Fotografico, fotografa, è un termine che viene usato impropriamente. Come fosse un documento ufficiale. Un qualcosa di incontrovertibile. 

Non è affatto cosi, almeno per me. Anche la più “banale” delle fotografie si incarica di dirmi una montagna di cose. Da un dettaglio puoi percepire tante cose, puoi spingerti ad immaginare, a supporre. Non è l’oggetto in se che è privo di parola. Lo diventa agli occhi di chi non vuole cercarvi un senso.
Tralascio la montagna di sensazioni che ricavo da foto di parenti, amici, gente che non c’è più. L’operazione di aprire l’album fotografico (e da giovane ne scattavo!) la vivo ad intervalli sempre più radi, consapevole che è inevitabile il tasso di malinconia cresca. Adesso c’è l’hard-disk di un computer.

C’è Dropbox (o qualunque altro cloud) che ti permette di condividerla con altri. C’e’ l’immagine sul monitor, che con un colpo di click lascia il posto ad un’altra. Le foto di un viaggio, di una festa, di un figlio: ridotte alla forma liquida, immateriale, scomposte in codice binario, in luogo del vecchio supporto cartaceo, che al virare di colore si incarica di dirci quanto tempo è passato.

Viviamo nella società dell’immagine. Superato lo spaesamento per il passaggio dall’analogico al digitale, la foto acquista nella percezione di ciascuno significati sempre diversi. Voglio pensare ad un futuro nel quale il valore di “documento”, l’accezione corrente di “prova fotografica” venga sempre più abbandonato a favore di un utilizzo sempre diverso, e che si faccia carico di quella cosa impossibile che è aiutare il cervello umano ad elaborare. Un fertilizzante, mica altro.


(*) Monica è Monica Cillario, una fotografa "free-lance" come ama definirsi. Ha un blog, molto bello, che si chiama "faccio tutto bene, domani", e si trova qui.
Collabora, inoltre, con un giornale online dedicato alla fotografia,  si trova qui

la foto in alto è uno screen-shot da un vecchio filmino in super8 girato da mio padre, probabilmente intorno al 1958, all'aeroporto di Mogadiscio.



01/06/13

La grande bellezza, di Paolo Sorrentino.















Anni fa, Elvis Costello pubblicò un cd davvero mirabile, a partire già dal titolo. Si chiamava All this useless beauty. Tutta questa bellezza inutile (o sprecata, che secondo me suona meglio).
E’ il concetto di Bellezza, cosi soggettivo, difficile da omologare senza evitare di contaminarlo con il gusto corrente delle cose, della vita delle persone, delle città, del quale si occupa questa pellicola.

Si lavora per addizione allora. Dove il regista sente il bisogno di un canone, e sceglie la Roma più oleografica, spinta all’estremo da una fotografia che si incarica di stabilirlo questo canone. E all’interno del quale collocare, facendo perno sulla figura di Jep (un performante Servillo) e del microcosmo nel quale si agita, uno dei ritratti più fedeli del "Roman-way-of-life"..

Il film è un omaggio al simbolismo. Come una di quelle cover (passabili) che il solito artista semi affermato prima o poi (a corto di inventiva personale) sente di dover tributare a coloro verso i quali è grato, attribuendogli paternità mai riconosciute, al limite del conflitto edipico. Qui i riferimenti  sono Fellini e Buñuel.
Il primo per esser stato capace di rendere “la dolce vita”, forse Roma stessa,  come meglio non si sarebbe potuto. Il secondo per via di un suo particolare sguardo sulle”virtù” della borghesia e la fin troppo chiara citazione nella scena della giraffa nel teatro di Massenzio e degli aironi sul balcone prospiciente il Colosseo.
Fatta la tara a tutto questo, la Bellezza del film riposa in un uso sapiente (e quasi narrativo) dei primi piani e su alcune, salaci, battute.

Sorrentino è già nell’empireo di certa critica. Gli va dato almeno il merito di provarci. Nessuno, almeno fin qui ha saputo rendere meglio il trash patinato di alcune terrazze romane. Luoghi dove, a dispetto del sol dell’avvenir, si decidono cinquine, si stabiliscono degli eletti, si sussurrano sentenze e infine si fa a gara per sopprimere alla meglio il senso di inutilità del tutto, quasi che le beghe umane piuttosto che diventare il centro del mondo, a petto del continuo (insistito) confronto con quanto di più vicino al canone della bellezza “classica” svelino, in modo potente, tutta la loro inconsistenza. Tutta questa bellezza (tempo, amori, affetti, luoghi) sprecata, appunto, mentre si approssima la morte. 

Da vedere.

Sempre di questo regista, altra “recensione” qui