22/09/10

Italian design

l'auto usata dagli italiani nei favolosi anni '60


L'altra notte mi chiama mio cugino. Mio cugino è uso chiamare senza particolari attenzioni per l'orario. Dormivo, quindi normale abbia percepito poco dei suoi discorsi. Mi ha solo chiesto insistentemente dove trovare, nell'ordine, un trepiede per telecamera, ovviamente una telecamera e una 600 multipla d'epoca da prendere a nolo. Per le prime due esigenze gli ho risposto, confuso, che forse potevo provvedere io, per la terza gli ho suggerito Ebay e un robusto search su google.

Nel nosocomio dove è ricoverato, mi ha detto, gli limitano fortemente l'accesso al web. Fatale che ora debba provvedere anche a questo.

Prima di riattaccare ho provato a chiedergli cosa ci doveva fare con tutta sta roba.
Una parodia della scena iniziale di Somewhere, ha detto.

17/09/10

Somewhere, di Sofia Coppola & Quenquin Tarantino


















Grazie ai buoni ricordi di Lost in Traslation, e vittima del gran battage dovuto al Leone d’Oro che la pellicola si è aggiudicata a Venezia, ho staccato il biglietto e assistito al film ieri sera, in una sala semideserta, e anacronisticamente ghiacciata sebbene non sia più agosto.

Non mi è piaciuto. Ho trovato ridondanti e pretenziose le lunghe pause a macchina fissa, quasi a voler sottolineare, riempire a forza di senso, lo statico osservare la scena, da parte dello spettatore, pretendendo quasi di accettare questa come una “cifra” del regista.

La storia in sé può anche esser degna di una narrazione diversa. Dove, in luogo di un montaggio apparentemente casuale, i dettagli finiscono col sostituirsi al centro della storia, lasciando forte il sospetto che si tratti di una di quelle battute di una coppia qualsiasi alla frutta: non abbiamo un cazzo da dirci, ma ce lo sappiamo dire ancora bene.

Lo so, la Coppola gode di un consenso quasi incondizionato. Ma il suo cinema, depurato da effetti speciali (si salvano le sequenze dedicate a due gemelle specializzate in lap-dance a domicilio) e il rombo (in presa diretta) di una Ferrari da sballo, non decolla. Strano, perché l’indovinata maniera di raccontare una mancata storia d’amore in Lost of translation, qui diventa evanescente, lavorando per addizione, e concedendosi appunto vezzi da gran regia (quelle pause insistite) che nella migliore delle ipotesi hanno il potere di irritarmi.

Piccola chiosa finale: ci fa fare una generosa figura di merda, parlo come italiani.
Mai vista la scorta con le sirene spiegate per accompagnare in albergo una star, prego vedere ad altre latitudini, mentre ahimè ci coglie in pieno, nella sequenza della premiazione del protagonista (una star hollywoodiana) nella trasmissione dei telegatti (ospiti, recitando se stessi, nell’ordine l’immancabile Ventura, il frizzante Frassica, lo spaesato Nichetti una naftalinata Marini) il festival del provincialismo coniugato alla somministrazione continuata e quotidiana di paccottiglia televisiva.

Che dire ? Troppo forte la tentazione di dare credito alle (numerose) critiche levate da più parti intorno all’incensamento della pellicola, ad opera di un presidente della giuria di Venezia di quest’anno, che, stando alle cronache, pare abbia avuto una consistente storia d’amore con la regista.

E questo, si, forse proprio in forza del cognome di entrambi, e stando alle tristi cronache di questi tempi, rende il film, ma in generale un po’ tutta la storia, molto, molto italiana.

Per carità.

15/09/10

Grazie Cindy

la copertina del disco









Poi, arriva ad un certo punto della carriera di un cantante, magari distintosi su altre sonorità, altri “generi” musicali, il momento in cui, fatalmente, direi quasi inesorabilmente, “sforna” un disco di blues.

E’ il caso, da antologia di Gary Moore, prima onesto praticante dell’Heavy metal, o quello dei tributi, come quello degli Aerosmith (anche loro, dai sentieri dell’Heavy, tributano al blues uno dei loro album più belli – sontuosa la loro The grind – traccia dello stesso album HONKIN' ON BOBO intriso di blues).

Da pochi giorni sto ascoltando una tipa che ho apprezzato, da anni, per la sua freschezza, per la pazzia di sottotraccia che la sottende, per la capacità di stupire, di misurarsi con il nuovo e che mi ha regalato momenti di autentica euforia (Girls Just Want To Have Fun). E’ arrivato il suo momento del blues. Uscito non so bene quando, ma senz’altro quest’anno, Memphis Blues è un piccolo cammeo. Accanto alla Lauper, in quasi tutti i brani, ad accompagnarla ci sono calibri del genere blues, da Jonny Lang (altra mia “fissa” particolare) a BB King, da Charlie Musselwhite a Allen Toussaint.

Il disco è un insieme di cover, tutte egregiamente riuscite e che danno modo alla cantante di mettere in mostra la sua versatilità, non sfigurando affatto accanto a mostri sacri di provata e lunga esperienza. Sembra che l’abbia sempre fatto, il blues.

Ora, al di là del sospetto si tratti di un’abilissima operazione di marketing (peraltro piuttosto in voga: come visto non è raro che escano album con tale architettura: un grande nome in duetto con altri, altrettanto grandi, nomi), quello che mi intriga (essendo praticamente un malato del genere) è perché, prima o poi, si sente questo “bisogno” di tornare (o arrivare) al blues.

Blues è uno stato d’animo, mica solo una musica. Blues è la metodica ossessiva di dodici sporche battute che si ripetono all’infinito e che consentono, su un ordito di tempo e ritmo, di innestare stacchi di voce, di chitarra solista, reinventandosi di nuovo. Un mondo a se.

Il blues, almeno in Italia, vende pochissimo. I banchi dei negozi di CD sono tristemente assortiti: qualche grande nome, poche le novità, totalmente mancanti gli artisti che pure, in tutto il mondo (il genere vanta artisti ad ogni latitudine, dai Leningrad Cowboy a gruppi, misconosciuti, nipponici).
E’ una roba da malati.
E io stesso, non mi sento molto bene.

risorse:
il sito della cantante
l'immancabile track su youtube

10/09/10

Bruciare il Corano ?


Volendo volgere lo sguardo altrove…

Questa storia del Corano bruciato. L’immagine del reverendo souncazzocomesichiama (cosi i motori di ricerca non faranno fatica a lasciare in pace queste pagine) con i suoi bei baffoni da birraio depresso di Upsala, fanno il giro delle tivu del mondo. Di tutto, il mondo.
Una notorietà cosi, ci sono Aziende, che per averla dovrebbero sborsare l’equivalente di una finanziaria. A costui no. Gratis.

Fatale che sul suo passato si siano gettati, con zelo giornalistico (qui si stampa per mesi la storia di un banale bicamere nel Principato) e scoperti altarini vari. Diamo pure per buono non sia uno stinco di santo. Anzi, acclariamolo subito cosi passiamo avanti.

L’oggetto del contendere, posto che sia effettivamente cosi, è il permesso di costruzione di una moschea nei dintorni di quel teatro a cielo aperto, denominato dopo l’11 settembre di tanti anni fa, “ground zero” che nell’immaginario collettivo dell’inizio di questi anni zero, ha simboleggiato l’irruzione di una categoria chiamata PAURA fino allora sottaciuta dietro performance di borsa, azioni di guerra lampo, chevrolet a buon mercato, e prezzo della benza (rigorosamente “a galloni”) definito accettabile.

Sarà la storia a stabilire, se e quanto, la visione ossessivamente ripetuta del simbolo fallico per eccellenza, quello delle due torri che vengono giù dopo il grazioso ingresso degli aerei, costituisca la linea di partenza di un delirio reciprocamente alimentato. Quello che mi piace leggere in questa vicenda è la conflittualità, che non mi va di iscrivere in una cornice religiosa, fra la tolleranza di Obama e l’odio furbo del reverendo.

Due modi di intendere come stare al mondo. A dispetto degli odi (o proprio a causa di essi, della voglia di non alimentarli: i coglioni proliferano indipendentemente dalle latitudini) la prima è figlia di una sorta di real-politic, volta a cercare di dissipare, togliere acqua e non fornire pretesti ad un fondamentalismo fuori tempo massimo (ma ugualmente nocivo: pensare a cosa sarebbe stato se il pischello catturato oggi a Copenaghen fosse riuscito a farsi saltare in aria), l’altra quella di chi (e chi non ci legge certe affinità di casa nostra, su tutte la maglietta indossata da un attuale ministro in carica?) forte del consenso degli strati più retrivi della popolazione, ha ideato la trovata di bruciare il Corano e che sta spopolando sui media di tutto il mondo.

Prim’ancora che inchinarsi alla prima, vedere e prendere nota: in un braccio di ferro come questo, anche i boicottaggi di Hamas ai tremolanti segnali di disgelo fra Israele e i Palestinesi, si iscrivono in un momento della storia nel quale a prevalere dovrà essere sempre più la ragione, per stemperare gli animi, mettere in fuorigioco, gli eterni fautori di guerra.

Bruciare il Corano non è stupido in se. Non offende tout-court gli animi più suscettibili (quante bandiere degli States bruciate in mezzo mondo ? Anche in casa nostra. Per questo dovremmo essere invisi alla comunità “civile” internazionale ?) No, bruciare il Corano offende in primo luogo proprio chi, professandosi uomo di culto (quale che sia) ammette che il contorto disegno di Dio abbia bisogno di una messa a punto. Una revisione che non vale la pena di fare. Continuando a girare su di un vecchio macinino, che prima o poi, in barba (o in ossequio) alle leggi della meccanica (celeste?) si dovrà fermare.

02/09/10

Chanel 505

















Allibito, completamente. Ho sempre accettato con mestizia le contumelie del genere femminile verso l'inclinazione, tutta maschile, per il calcio. Quasi un must. Sopportare le borbottanti ritrosie di chi si vede preferire ad una partita di calcio in tv, fatta eccezione per le squadre dei campionati di serie B. Insomma, dalle donne è lecito aspettarsi stigmatizzazioni per una passione che, ammetto, può rasentare i contorni della fobia.

Ma come altro definire quella che le caratterizza per entrare in possesso di uno smalto ?
Se per caso questo sia cosi particolare da ripeterlo, anche nel nome: “particuliere”, è uno smalto che sta mandando fuori di testa un gruppo di mie amiche. Introvabile nelle profumerie di ogni rango e sorta, il 505 (questa la sigla) di Chanel è un punto di colore che si approssima al fango, ritenuto di un'attualità devastante, e che sta scatenando crisi di panico fra coloro che lo vanno cercando, ahimè senza successo.

Rinvenuto in un anonimo magazzino di Amsterdam, una sorta di Rinascente nostrana, è stato acquistato da una mia amica in un paio di confezioni (ma volendo ne disponevano di altre) per farne dono ad un'altra sua amica, di Roma. Inutile dire che ho assistito alla scena del regalo. Commovente.
Quasi quanto sperare che Borriello, ricordandosi come si gioca a pallone, dimentichi per un po' le veline, e si dedichi, come da profumato contratto, alla realizzazione di un numero decente di gol per la sua nuova squadra.