30/12/14

Il posto.














Adesso lo sappiamo con certezza. Siamo costantemente osservati, “profilati”.
Evviva. Lo siamo per tanti motivi, la privacy sta divertendosi a modificare i suoi confini, come il delta di un fiume, nei secoli.

Ciò nonostante, o forse, proprio grazie a ciò, vorrei spendere qui due parole intorno ad una cosa banale, un’inezia si dirà, ma che è rivelatrice forse e più di tonnellate di carta di rapporti Istat, Censis et compagnia cantando. (e fra l’altro, gratis).

Una massima zen, citata ne L’ultimo samurai, indimenticato film di qualche anno fa, recitava più o meno: “ dare importanza alle cose di nessuna importanza”.

Ecco. La scena, vissuta personalmente almeno un paio di volte, ma chissà quante altre invece ripetuta lungo tutto lo Stivale.

Prendete un punto di ristorazione: a me è capitata, entrambe le volte, in un centro commerciale.
Non ha importanza qui l’insegna, se Mc Donalds, Giovanni Rana (eh si, il merchandising vuole anche i tortellini cotti da altri, mica solo da se stessi in rabbiose serate solinghe…) o Vattelapesca take-away).
E’ invalso l’uso di prendere possesso dei tavoli (in genere, soprattutto nelle ore di punta appena appena adeguati alla quantità di pubblico) prim’ancora di aver preso in mano il fatidico “vassoio” col cibo sopra.
In altri termini: ancora devo mettermi in coda per decidere cosa cazzo mangiare, ma intanto delego (fa niente qui, oppure no, sarebbe bello “profilare” anche questo) qualcuno, un mio amico, un parente, un figlio, un nonno a “occupare” un tavolo libero, costringendo per una bizzarra concezione del tempo (il nostro si sa, vale sempre qualcosa in più di quello degli altri)...coloro che hanno già il vassoio in mano a guardarsi spauriti all’affannosa ricerca di un posto dove potersi sedere tranquilli e trangugiare il pasto.

Un'inezia? Provate a mettere il naso in questo genere di posto, vedrete quanto è diffusa. Nonostante i gestori più ispirati al politically correct non si risparmino l’affissione di qualche blando cartello ammonitore (chissà, diretta applicazione di qualche rigoroso diktat magari scritto da qualche civile funzionario straniero della multinazionale, alla stregua degli avvisi che trovate nelle metropolitane di tutta Europa, che recitano, più o meno, ahò occhio ai fingerpicking (borseggiatori, per quelli di Afragola).

Cercando di capire questo comportamento, ne viene fuori un profilo sconfortante. Lasciando da parte l’educazione (quest’ultima ahimè, mai cosi in disuso). Nell’atto di sovvertire un ordine logico, il movente non è la logica, di convivenza, che troverebbe “normale” accettare l’idea che la priorità del posto spetti a chi ha già il cibo in mano, ma la propria. La propria logica evidentemente reputa più importante assicurarsi “ora per allora”, di prendere il posto a prescindere. Non ho un cazzo in mano, al limite sfrutto un indumento, un cappotto, i sacchi della spesa, le buste di qualche boutique per occupare i posti a sedere, come in festival sull’assenza, e in tutta franchezza ostento noncuranza delle regole “civili” in quanto reputo più importante il mio (e quello dei miei eventuali commensali, della “mia” tribù) bisogno di trovare una seduta per consumare un pasto in santa pace. Ad osservarli si percepisce anche quanto radicata e normale sia tale convinzione. Hanno le espressioni più serene della terra, l’unica apprensione che possono, potrebbero manifestare è per la qualità (o quantità) di cibo che il “delegato alla coda” sarà in grado di riportargli, nonché il livello di temperatura.

Del resto, non gliene importa una sega. Non si pongono assolutamente il problema, anzi, dov’è il problema? C’è un posto libero? Lo prendo.

E’ l’ansia del posto fisso. Tu intanto fa il concorso, e “prenditi il posto”. Ecco l’Italia che vogliamo dimenticare è stata anche questa. La vulgata che voleva la possibilità di sfuggire ad un futuro di stenti, all’ottenimento di un posto fisso (indipendentemente se in banca, al comune, alla provincia, alla regione o in qualsiasi ministero). Il posto come amuleto contro la sfiga. Il posto come giusto corrispettivo all’incertezza dei tempi. Una coperta di Linus, l’affrancarsi dall’affanno, una meta.

Cos’altro? Il dispregio degli altri. Esisto io e metto le mie esigenze un gradino sopra quelle degli altri (coi quali, per bizzarra contraddizione posso anche fare lo splendido mandando auguri sentiti per ogni ricorrenza, intrattenendo piacevoli discussioni ad una fermata del tram, bus o metro che sia). A me non me ne frega un cazzo, in queste circostanze, degli altri. Io intanto occupo il posto.

Questo “tic” rivelatore, fa il paio con l’altro caso diffuso, della pratica di scavalcare una coda ad un semaforo. E’ normale, da Bolzano in giù. Una volta mi è capitato di farlo a Merano (BZ) ma per sbaglio, non conoscendo il semaforo che aveva i verdi “splittati”, mi ero messo in coda non accorgendomi che per girare a sinistra dovevo appunto stare sulla coda di sinistra. Io ero sulla destra. Ricordo ancora oggi le occhiate di fuoco (nessuno osò apostrofarmi con rimarcati colpi di clacson) ricevute dagli automobilisti cui avevo ingombrato la strada per consentirgli di girare a destra.

Venite sulla Cristoforo Colombo, a qualsiasi ora del giorno o della notte: è pratica diffusa.
C’e’ sempre qualcuno (non importa la cilindrata, il prezzo, o il modello dell’auto che lo trasporta) che ritiene il proprio tempo essere più importante di quello degli altri che, coglioni, si sono messi in coda, come si dice con un avverbio svuotato di senso “regolarmente”. E’ diventato regolare questo di comportamento. Godo, ahimè raramente; sol quando una pattuglia di vigli si apposta carognescamente poco avanti al semaforo e graziosamente li ferma, immagino e spero non per fargliela passare con un buffetto.

Tu vivi male, fratello. E’ vero, do ancora importanza a queste stronzate.
Sono talmente stronzate che però, giorno dopo giorno, granello dopo granello, sgretolano quel residuato bellico del concetto di convivenza civile, che ha uno dei suoi fondamenti nell’osservanza CONDIVISA di regole, fossero anche le più piccole, le più insignificanti.

E queste lo sono, come recitava quella massima zen.

Sia come sia, un buon 2015, speriamo migliore di questo.



13/09/14

Perdere un cane, oggi in Italia



















Mi è toccata in sorte l’esperienza di perdere un cane.
In passato ne ho avuti diversi che purtroppo sono morti chi per vecchiaia, chi per malattia (quasi sempre razza Boxer, la maledetta lesmaniosi).
Ma mai quella di privarsene per una fuga.

Forse, nella gamma dei dolori che provocano questo genere di avvenimenti, il peggiore.
Sono dovuto partire per qualche giorno. Ho affidato, ritenendo di far bene, la piccola barboncina Olly nelle mani di mia figlia, ventenne, che l’ha avuta piccolina, per poi affidarmela dopo poco tempo. Da quattro anni Olly vive con me..

Per un insieme di errori, il mio quello di affidargliela, il suo, che una volta accettato l’incarico ha pensato bene, per leggerezza, di lasciarla incustodita in un giardino di una casa di amici senza aver verificato prima la possibilità che scappasse, insomma Olly è sparita.

Sparita a Lavinio. Un gruppo di case, venute su nel tempo, tagliate da strade regolari, a ridosso del mare. Quartiere di tipiche seconde case al mare dei romani e di pochi residenti stabili.

Cosa può essere successo? Olly, alla disperata ricerca dei suoi padroni potrebbe aver preso l’iniziativa (va a sapere cosa provano i cani…) di uscire attraverso un varco sufficiente a far passare il suo piccolo corpicino. Una volta fuori, poche alternative, entrambe tragiche. Complice la notte, il mantello scuro, le dimensioni ridotte, l’assoluta incapacità di abituarsi alle auto (ogni volta che entravo in casa con l’auto, o stava sulle mie ginocchia o chiusa, al riparo, dentro casa), essere finita sotto una macchina, oppure (come mi auguro) presa da qualcuno che transitava da quelle parti, e che avendola notata, complice la sua abitudine di far le feste a tutti, potrebbe averla presa con se.

Dettaglio non trascurabile: al momento della fuga indossava ancora la pettorina nera per il guinzaglio, segno inequivocabile ai più, che è di proprietà di qualcuno e che non è un randagio.

Da allora il buio.

A poco, finora, sono valsi decine e decine di annunci stampati su fotocopie e disseminati nella zona (bar, edicole, parrocchie, studi veterinari) né l’obbligatoria denuncia di smarrimento fatta alle autorità). A poco ancora il tentativo dettato dall’intuizione che trattandosi di seconde case potesse essere, anziché ancora in zona, magari a Roma, come quello di far uscire un’inserzione a pagamento sul quotidiano maggiormente diffuso a Roma, nell’edizione della domenica che conta maggior tiratura e quindi maggior numero di lettori disposti anche ad aver tempo, essendo domenica, a leggerlo, e sensibili al lato economico della faccenda, come quello della ricompensa. Solo la solidarietà di persone stupende, come un conduttore radiofonico di una radio di cui non ho capito nemmeno bene il nome, che mi ha chiamato e fatto raccontare "in diretta" la storia e un galantuomo della Protezione civile, che si è offerto di condividere "con i suoi uomini" l'appello e la ricerca.

E poi ancora Facebook. Non si ha idea della quantità di pagine che raccolgono gli appelli disperati di persone nelle mie analoghe condizioni. Una Spoon river della sofferenza che solo chi ha avuto un rapporto con un animale domestico (essenzialmente cani e gatti) può capire. C’è un’umanità in Italia che si affida alla rete nella speranza di rientrare in possesso dell’amato bene.

La personalità umana, come un diamante, è ricca di sfaccettature. Nell’economia degli affetti di ciascuno, lungi dall’ergersi a giudice delle emozioni altrui, è facilmente intuibile capire quale peso abbia nella sfera dei propri affetti. Certo, al riparo di derive, ma la compagnia di queste bestiole è un ottimo viatico per le rispettive solitudini.

La mia casa è vuota senza un animale di pochissimi centimetri, ma capace di colmare un vuoto molto più grande di lei. Fatale che ancora la cerchi, mi venga di chiamarla, di ripetere gesti ormai divenuti rituali, come quello del biscottino al risveglio, o del lancio della palla da tennis in giardino che aspettava, ansimante, con la linguetta di fuori, per poter scorrazzare a palla sull’erba.

Non è un dolore facile da descrivere. Ti accompagna. Ti si incolla dentro, come una nota stonata in un quadro dall’equilibrio perfetto.

Eppure. Olly era dotata di microchip. Vieni ad apprendere che esistono veterinari compiacenti che sono in grado di asportarlo. Vieni a sapere che rari o inesistenti sono i controlli “random” delle autorità preposte, l’assenza di una banca dati nazionale (degli animali smarriti). Insomma, nell’evolutissima Italia, nella patria della civiltà giuridica, non esiste per il cittadino che incorra in questa “disgrazia” alcuna tutela, ancorché normativa.

Certo, il possesso di un cane trovato dotato di microchip è ritenuto reato. Ma nell’immaginario collettivo deve essere ritenuto grave come quello di  parlare amabilmente con il cellulare all’orecchio mentre si guida.

Con il passare dei giorni, al dolore che solo chi possiede un animale può intuire, subentra una sorta di elaborazione del lutto. Tieni d’occhio i siti, metti e rimetti annunci. Ti affidi a quel briciolo di compassione che solo chi possiede o ha posseduto un animale è in grado di comprendere.

Sto meditando di aprire una pagina facebook dal titolo, come fosse quello di un film, tipo “Olly torna a casa!”. Non è escluso che lo faccia. Includendo le foto i filmati le note e i pensieri che una convivenza di anni ha contribuito a consacrare al pari, quasi, di un rapporto con un altro essere umano.

Intanto, oggi, sabato 13 settembre, sono due settimane che quella sagoma nera, pelosa e scodinzolante, non riempie con la sua perenne allegria le mie giornate.

Torna, ti affidi a quella cosa che chiamano speranza. Speranza che qualcuno, posto non sia morta finita sotto un auto, che l'abbia presa in custodia, possa aver compassione sufficiente per restituirla ai legittimi proprietari.

Grazie.



questo è l'annuncio fatto uscire sul Il Messaggero, domenica 7 settembre:










26/05/14

Narrazioni (storytelling).

Mettiamola giù cosi.
Risultati alla mano, adesso il solito teatrino dei vinti e vincitori. Vabbé.
Bene, tutto bene.

Benzina per le narrazioni che ci ammanniscono, vogliono spiegare, cercano di inquadrare, propinano chiavi di lettura omni comprensive. Lo snob, lo scettico, l’entusiasta, e via via tutto il catalogo delle posizioni umane (italiane, ma non solo) del the day-after.

Non so se calza questo esempio. Immaginate un mercato, quello elettorale. Mi piace vederla cosi.
Ci sono le due ditte BIG, che si coalizzano…vivi e lascia vivere, (traduz. Non mi rompi i coglioni e io faccio altrettanto con te).  Bene. In questa condizione da “cartello” abbiamo vissuto in stato di stallo da anni. L’irruzione di Grillo, del suo movimento, sul mercato ha avuto l’effetto di rompere questo equilibrio, questa pace del mercato. Ha fatto in modo che le due aziende leader si svegliassero di colpo, obbligandoli, forse anche oltre le proprie intenzioni, a prendere atto che la festa era finita: era arrivato il rompicoglioni.

Ecco.
Allora grazie a M5S. Grazie davvero. Gente che a prescindere da tutto, è onesta. Sarà sprovveduta, dirà per radio (come mi è capitato di sentire) “assist” al posto di “assett” ma è gente ONESTA, almeno fin qui.

Allora io voglio, in un gioco democratico, perfettamente lecito, dove l’unica violenza (e vorrei ben vedere) è limitata a quella verbale, ma che è fatta di gente che ci crede, che si è messa in gioco, voglio una sentinella cosi. Voglio che esista un movimento come questo perché è una voce fuori dal coro, la possibilità di conoscere (e ancora troppo poco) gli intrallazzi e le connivenze di chi ci ha portato in questo stato, in questa condizione.

La narrazione ufficiale ci propina Speranzina. Come la Misericordina. Adesso siamo cosi.
Poi vivo, mangio, vado in giro. Incontro la stessa gente che ieri è andata o non andata a votare.
E in giro vedo tanta sofferenza. Vedo negozi vuoti, commercianti disperati tallonati da Banche che carognescamente ne chiedono il rientro (ne conosco diversi)  dai fidi concessi anche senza reali motivi di insolvenza.

Adesso raccontateci che va tutto bene, rivestite la vostra narrazione ridicolizzando i vinti e celebrate con termini roboanti le vittorie.

Siamo in ritardo. Renzi avrebbe dovuto scendere in campo già all’indomani delle prime primarie (scusate il bisticcio), sappiamo a chi dire grazie, l’apparato gerontocratico del PD che ha tergiversato prima di mollare la presa, e ironia della sorte, aver beccato con uno come Renzi per la prima volta, oltre il 40% dei consensi.

Auguro ogni bene a quest’uomo. Si è mosso abilmente ed è apparso sufficientemente rassicurante da essere capace di intercettare(80 euro o meno) gli umori di un sacco di cittadini, esauriti, forse impauriti dai toni (a volte si, decisamente “alti”) del movimento di Grillo. Speriamo sappia tenere la schiena dritta davanti ad un’Europa bizzarramente guidata dai burocrati di una banca privata (BCE).

Poi, raccontatacela come volete. Io vado, con grossi sforzi ancora vado in giro, per tentare di lavorare, e ho ancora occhi per vedere. Non pretendo di avere il dono della verità, ma è un’altra Italia ancora, quella che vedo, quella che incontro, ogni giorno. E non coincide con quella della "narrazione ufficiale".

Non altro. Per ora.

23/03/14

Sabato, intorno alle tre.















Un attimo, una manciata di minuti.
Ieri, pomeriggio presto. Intorno alle tre. Tor Lupara. Uno stradone, con le case intorno. Negozi chiusi. Ho fame.
Trovo un posto dove mangiare qualcosa, una pizzeria al taglio. Entro, un gruppo di ragazzi sono seduti ai tavoli, maneggiando i rispettivi cellulari.

Una ragazza magrissima, polacca o rumena, avvolta in un grembiule dietro al banco mi chiede cosa voglio.
Le ordino un Kebap. Mentre lo prepara, esco. E’ una giornata strana: non ancora primavera piena ma nemmeno freddo. A due passi c’è una chiesa. Una grande Mercedes argentata ha il cofano alzato: hanno appena portato dentro una bara.

La ragazza si mette a “rasare” il kebap. Poi mi chiede come lo voglio: completo, dico. I ragazzi ridono, qualcuno si bacia. Ci mette un po’.
Esco, scostando una tendina a fili triste.

Per strada arriva una macchina. Scende una coppia. Lui con i pantaloni verdi. Lei con i capelli completamente bianchi, ancora giovane, indossa un grande cappotto cachi e degli stivali. Attraversano la strada, non camminano vicini. La donna ha grandi occhiali da sole. Ma è nuvoloso. Forse è come me: fotosensibile.

Il Kebap è pronto. Prendo una bottiglia d’acqua e il vassoio sul quale c’e’ il panino. Mi metto seduto fuori, su un tavolino dove c’e’ anche un altro vassoio vuoto.
Cominciano a suonare le campane a morto. Ci stanno. E’ solo un sabato pomeriggio e qualcuno festeggia la sua dipartita. Per un altro viaggio.

Sono avvolto dai fumi di qualcosa che si è bruciato nel retro del negozio e che esce, come risucchiato in un qualche gioco di correnti, verso la porta d’ingresso.
Mangio mentre la puzza di bruciato si fonde con l’aria irreale e le campane che suonano.
La coppia ritorna, sale in macchina. Se ne va.


10/03/14

ITALIA, LAND OF QUATTRO.


Sto invecchiando. E inguaribilmente mi diverto a leggere i sottotesti delle pubblicità. Non per una sorta di necrofilia sviluppata negli anni, sol perché, a sera, accendo la tv.

E in tv, ci sono gli spot. Anzi, la tv è quella cosa che fanno fra un pubblicità e l’altra.
E’ un discorso lungo. E non credo sia questa la sede. Prendo atto.

Italia, land of quattro. Detta da una voce di quelle che non ammette repliche. Ma fa riflettere. Anzi, è bene riflettere, ognitanto, perché non c’è niente da capire: se non sei del tutto rincoglionito, siamo arrivati all’esplicito. “E’una tedesca!” dice una Shiffer alludendo ad un’altra autovettura.
Il sottotesto. E’ quello il nucleo, il centro esplosivo che propala dallo schermo fino ai più impervi recessi delle sinapsi italiane.

Chi lavora nella pubblicità col cazzo, come dicono, che è solo uno strumento. Si, il brief può anche essere imposto dai rispettivi feudali Uffici Marketing. Siamo terra di conquista, si era capito.
Dove non arriva la sfrontatezza del responsabile Marketing, stretto sulla graticola dell’ordine di scuderia del contenere il budget, ma di raggiungerlo nello stesso tempo (buffo no? La stessa parola a sottendere un obbiettivo ed una capacità di spesa: cosa sono? La stessa cosa, infondo?) ci arriva il copy.

E allora si, facciamoci del male. Cos’è sto sciovinismo d’annata. Via. L’Italia è land of quattro. Quattro chi? Amici al bar? (e se si, di dove? Bruxelles?).
Il testo lambisce vette di imbecillità. Tutto proteso ad enfatizzare le capacità di un auto che resta indifferente al clima e alle condizioni della strada, arriva a magnificare la bellezza della guida tanto più converrebbe restarsene comodamente in casa, sulla poltrona, a fare la settimana enigmistica (che come recita il claim inossidabile, almeno “tiene allenata la memoria” che tanto bene fa).

Sono le mani di una casa automobilistica estera (si, d’accordo, anche tedesca) sul territorio nazionale, oltre che semplicemente sui suoi abitanti coglioni. E’ Land of quattro. Quattro.  E voi siete solo, come sosteneva un cancelliere di tanti anni fa, una mera espressione geografica. Siamo una quota di mercato. E ci blandiscono, perché poi è vero: facciamo schifo, ma al nostro portafoglio ci tengono. Anzi, tengono soprattutto a quello. E pertanto, al fine di lobotomizzarci, vogliono farci credere che se il futuro è fatto di dissesto geografico (orografico, per la precisione) occorre tassativamente dotarsi di un auto che non abbia solo due ruote motrici, ma appunto ben quattro.

Ecco allora che al semplice apparire dello spot, spengo, o giro proprio.
Per poi beccare Claudia Shiffer. Gran bella donna.
E’ una tedesca.