28/05/13

Un buon modo di fare televisione.



















Azzardo un paragone. Fare buona televisione, giornalismo televisivo, è come saper scrivere bene.
Da qualche settimana il lunedi sera va in onda su Rai3 un programma che si chiama  “I dieci comandamenti”.
Di cosa parla? Non parla. O meglio, parla pochissimo. Lascia soprattutto parlare le immagini, le voci dei protagonisti. Il conduttore (che comunque c’è e si chiama Domenico Iannacone) è discreto. E anche se appare talvolta davanti alla telecamera, è come un buon scrittore: resta alle spalle della scena. Metaforicamente.

I temi: in genere sono scomodi. Ha il pregio di mettere gli occhi lì dove non vogliamo guardare.
Scorsa settimana c’e’ stato un lungo servizio (composto da tanti, piccoli, micro servizi) sulla condizione degli immigrati nelle campagne di Rosarno, in Calabria. Ieri sera ha riportato a galla (con tempismo davvero macabro) la storia di una ragazzina barese (Palmina Martinelli credo si chiamasse) che fu arsa viva anche lei come la povera sedicenne calabrese di qualche giorno fa.

Sono storie “dure”. Ma necessarie. Nessuno è obbligato a vederle, divertendosi come meglio crede con i soliti teatrini dei talk-show politici che, almeno ai miei occhi, hanno fatto il loro tempo, esaurendo qualsiasi tipo di interesse. Ma è questa la televisione che apprezzo.  Camera in spalla,  commento scarno o quasi del tutto assente, e grande protagonista l’immagine, la voce dei protagonisti, le storie.

C’era Goffredo Parise che scrisse un reportage su un suo viaggio in Africa (Congo, credo di ricordare). Anche lì, grande capacità di “rendere”. Prosa asciutta, scriveva per immagini. Senza compiacimenti o auto-indulgenze.

Una dote, considero questa, rara nel panorama del giornalismo italiano.

15/05/13

ONDE ROD, il film di Mario Pischedda













Itaca, o il ritorno.
Ho appena finito di vedere (si, non ce l’ho fatta, l’ho dovuto vedere, intanto da solo) ONDE ROD, il lungometraggio di Mario Pischedda.
La tenerezza, del temporale finale. Una poetica liquida, come quella della Pioggia, che spazza via tutto.
Girato a bordo di auto che solcano le strade della Sardegna. Un docufilm? Non proprio. L’estrema varietà delle presenze, i dialoghi (spesso monologhi) di tante persone chiuse in un microcosmo con le ruote.
Non è Cortazar, nemmeno Eisenstein. E’ altro. 

Un sovrapporsi affastellato di voci, spezzoni, inquadrature.
E’ il fluire della vita, ciascuno con la lettura che dà di essa. Tutte perfettamente decorose. Ciascuna tendente alla verità che tutti abbraccia e consola. La terra di Sardegna. Certi suoi scorci lunari. Dove anche tracce della contaminante “modernità” proprio non ce la fanno ad omologare un paesaggio, che rimane a sé, restio a farsi omologare, compiaciuto della sua asprezza. ONDE ROD è questo. E’ una lacrima che sta per uscirti sul volto di una donna bellissima e silente, che va incontro alla notte. E’, per dirla in altre parole, poesia. Poesia dell’immagine. E di questo nostro tempo, a volte così triste. 

C’è una sequenza bellissima verso il finale. C’è un gran temporale, i fari che illuminano una strada (lo percepiamo dai catarifrangenti ai bordi) e dai “frattali” che la pioggia disegna sul parabrezza che avanza, con pigrizia rara). Un novello Ulisse, per chilometri, al buio, illuminati solo dai fari dell’auto, con la musica ipnotica di Fresu di sottofondo.  Alla fine di una serie di curve, il bagliore. Una luce-Penelope che si staglia davanti agli occhi, con autorità, mettendo per un attimo il buio in castigo. Itaca a portar via, il viaggio, il ritorno. 

E’ bello questo film di Mario. E’ da vedere. E da lasciar decantare.
Come un buon vino, ha bisogno di aria.
Regaliamogliela, facciamolo girare.
Grazie Mario, di cuore.


12/05/13

In un certo senso, (6 atti tratti dai racconti di Raymond Carver)




















E’ che uno non sa mai cosa fare, nei weekend. Cosi, basta una segnalazione in uno di quei siti che elencano gli eventi per la serata a Roma, per decidere di andare. La parola chiave è CARVER. Bene, si  va.

Il Teatro delle Maschere è su una parallela di Viale Trastevere, tratto fra via Nievo e il ministero della Pubblica Istruzione. Si entra, si stacca il biglietto. Comincia: si alza il palcoscenico.
Sei scene. Sei atti dai titoli tratti dagli omonimi racconti di Raymond Carver.
Gli attori? Allievi di una scuola di recitazione, ma non fa niente.
Davanti ad alcune titubanze, recitazioni cui va fatta la tara di quanto detto sopra (allievi) è l’insieme che risulta gradevole, per la capacità (della scenografia, delle musiche, infine dell’atmosfera) che il tutto riesce a far arrivare.

Fra il primo e il secondo tempo, qualche anziano guadagna silenzioso l’uscita (forse si aspettavano altro).
Cosa c’e’ di buono? Che queste contaminazioni mi mandano ai matti. Cosi come (ne ho scritto qui) anni fa andai a vedere uno spettacolo di danza creato sulle musiche di Frank Zappa, anche stavolta ricordare i racconti che lessi (prima che diventasse un mito) di Carver riproposti in chiave teatrale, beh, è uno zuccherino.

I dialoghi, la forza dei dialoghi che era già degna di nota in forma scritta, si ripete anche nella recitazione, laddove solo la parziale inesperienza degli attori, in termini di mancata spigliatezza, non riesce tuttavia a fargli perdere l’efficacia. E’ il mondo di Carver rivive, stavolta privo dei suoi ipnotici “disse”.
Meraviglioso, su tutti, vedere il gioco di Cattedrale, contatto fra due mani che disegnano, quella di un cieco sul dorso di quella di uno che tenta, attraverso il tratto, di spiegargli come è fatta, che forma ha, una Cattedrale (sul quale si sono riversati fiumi di inchiostro) riproposto dagli attori con una naturalezza che lascia senza fiato e coinvolge il pubblico più smaliziato.

Ho assistito allo spettacolo in compagnia di una persona che non aveva mai letto nulla di Carver. Al termine, mi ha confermato di aver percepito l’humus dei suoi micro mondi. La forza irresistibile di un “cambiamento” di un’epifania (come la chiamano i più dotti) che scaturisce sempre. Anche nelle situazione più statiche, come nella vita. Che poi è quella cosa, della quale nell’arte di raccontarla anche partendo dalle sue pieghe più banali, Carver è stato maestro indiscusso.
Bello.

qui "more info about" : 

07/05/13

06/05/13

Onde rod (Mario Pischedda)













Mario Pischedda è una miniera da scoprire.
Adesso sta per rilasciare un film. Un cortometraggio, come ama chiamarlo lui.
La fruizione. Una volta che l’opera è compiuta bisogna divulgarla. E qui, per chi parte nell’ottica del totale fai da te diventano problemi. 

Come acquisire visibilità? La tv, certo, ma o vai in qualche rete nazionale (magari infilato in qualche programma di culto che passa a orari impossibili) neanche è detto.
E poi, la dovuta concentrazione. Vuoi mettere? La tv è dispersiva. Certo lo è anche il web. Ma al momento è l’unica strada per consentire visibilità. Questa può essere accentuata se del corto se ne parla, sui social-media, nei blog. Riserva indiana? Spazio per addetti ai lavori? Forse.
In ogni caso, in Italia manca una piattaforma. O hai una barca di soldi e ti auto-promuovi. Penso ad un accordo con le maggiori sale cinematografiche (sarebbe un buon modo anche per riportare gente nelle sale). Ti faccio vedere un corto prima della proiezione del film per il quale hai pagato il biglietto.

Consorterie, regole bizantine. Siamo un paese da prendere a modello (Gabanelli docet) quanto ad arretratezza, ostacoli, burocrazia per impedire che nasca qualcosa di nuovo.
Non credo sia il coro dell’invidioso. “Bucare” a volte è questione di culo. Non si entra facilmente nell’empireo degli amici degli amici. Se si viene cooptati spesso lo si è in forza di conoscenze (ah, il duro potere discrezionale duro a morire…). La qualità in tal modo viene soppressa in favore di non meglio precisate marchette. Ti pubblico perché sei cosi, sei cola, conosci Tizio, conosci Caio.
Invece, a me piacerebbe un altro mondo. Un mondo nel quale la competizione per emergere faccia perno sulla qualità. E non mi sembra sia questo il momento, ancorché evocato (dal vento grillesco).
Allora? Allora rimboccarsi le maniche, aiutarsi fra sodali, senza nulla avere in cambio se non il piacere di condividere una cosa che ci è piaciuta. E molto.
Grazie Mario Pischedda!
Tanta fortuna.

qui un breve filmato:  http://youtu.be/YIEuI8QBWto



05/05/13

Viaggio sola, di Maria Sole Tognazzi















Ogni tanto vado volentieri a vedere dei film di registi italiani. Mi piace vedere “lo stato dell’arte”.
Cosi, staccato il biglietto, stasera, per assistere alla proiezione.
Il film ha un buon cast. La Buy, si può dire, lo regge quasi da sola. Accursi, le fa quasi da comprimario.
Ma il pregio è della sceneggiatura. E’ una storia che si presta a tanti sottotesti. O almeno, al di là di una lettura limitata al soggetto, può rivelare diverse chiavi di lettura.

Intanto, non so se è una moda importata, ma la narrazione si svolge per pennellate aggiuntive. Nel senso che il montaggio ha il pregio di far scorrere (con quale indulgenza alla fotografia oleografica che nell’economia del film si rivela irrilevante) la pellicola senza pause auto indulgenti, e con un buon ritmo.
E’ sostanzialmente la storia di una solitudine consapevole. La maturità di una donna che sceglie, invece di essere scelta, ostaggio di una professione apparentemente ambita ma che per bocca della sorella della protagonista “la fa guadagnare come un’impiegata”. No, non è per quello che la nostra sale e scende continuamente da aerei, alberghi a cinque stelle, splendide città europee, africane e orientali.

E’ il parallelo fra la vita, apparentemente noiosa, della protagonista e quella votata alla routine della sorella: un marito in preda al classico calo del desiderio, dei figli ancora piccoli, un lavoro e la gestione di una casa.
Una casa la nostra non ce l’ha. O se ce l’ha, si rapporta con ironia anche con essa. Cosi come fa nei questionari che compila, facendo come lavoro l’ispettrice di qualità in incognito. “Si è trovata a suo agio in questo ambiente?” sentiamo chiedersi, con intento evidentemente ironico.
Due modi di intendere la vita. La Buy, che vorremmo felice di questo lavoro che la vede ospite di lussuose location, e la vita “normale” di sua sorella.

Il film offre spunti interessanti, come quando, in un hotel di Berlino, la Buy stringe amicizia, in un bagno turco, con un’anziana sessuologa, lì per presentare un libro. La donna le offre una definizione del lusso: “lo vede? Guardi con i suoi occhi”, le dice, “non le sembra che tutto questo lusso faccia sentire gli ospiti come in un palcoscenico?”.  E ancora, la Buy stessa, che parlando ad un suo ex (Accursi) che la va a trovare “sul lavoro” getta un’interessante riflessione circa il gioco della falsa identità che è chiamata per lavoro (ma infondo, non solo) a sostenere.

Un’elegia della fuga, confermata da una battuta finale, con la quale finge al telefono con la sorella, di voler mollare tutto per dedicarsi al volontariato in una scuola in Tanzania, per aiutare i bambini poveri.

“La morale, Benigni, la morale”, incalzava un giovane Arbore ai tempi de l’altra domenica, il Roberto nazionale nei panni di un improbabile critico cinematografico militante. La morale è che si tratta di un film che sebbene girato da una figlia d’arte (Maria Sole Tognazzi), si lascia apprezzare per il ritmo, per il coraggio di vivere la solitudine, anche a costo di inevitabili malinconie (il rapporto conflittuale con l’ex che intanto aspetta un figlio da un’altra donna, o con la sorella perfettamente integrata nella nevrosi della casalinga) decide di viversi comunque la sua diversità, accettando il prezzo di non poter avere una famiglia.

Ho visto di peggio.