02/02/13

Ciao Zeman, e grazie per tutto il pesce















(dedicato a Lui e ai piacitori della pagina Kansas city 1927 di Facebook)

Succede.
Succede che a volte non va come vorresti che andasse.
Cosi, un uomo di nome Zeman, viene chiamato a dirigere una squadra appena abbandonata dopo un anno da un tecnico (ben prima di Monti) asturiano stavolta. Arriva “il Boemo” per eccellenza. Sir Zeman, il profeta del calcio pulito. Del calcio spettacolo.

E’ estate ed è noto, in quella stagione, tutto è lecito azzardare, pensare, sognare.
Il nostro arriva in una società gestita da danarosi americani che tutto sanno tranne che di calcio. Saranno bravissimi con altre cose, tant’è che si sostiene abbiano una montagna di soldi.
Arriva il Boemo, e tutta l’estate è un fiorire di commenti entusiastici della stampa “specializzata”…si fanno pronostici, si applaude alla campagna acquisti. Tanti giovani, alcuni talenti già affermati, altri di sicuro avvenire. La società è gestita dagli stessi manager che l’anno prima hanno portato a Roma l’homme vertical, lui se ne è andato. Loro (Baldini e Sabatini) no.

Ora, chi scrive non è un addetto ai lavori. Sono ancora attaccato ai valori di un calcio che definirei “romantico”, facile scatti l’empatia per questo burbero signore, vagamente celebrato da tutta un’editoria che si prodiga in istant-book, che macina (o tenta di macinare) profitti alle sue spalle.
Arriva il nostro e subito un rinfocolare la leggenda. I gradoni, i duri, estenuanti allenamenti coi quali forgiare i giovani muscoli al suo tipo di gioco: tutta velocità e chilometri e chilometri sul campo. Fiato gambe e testa. Schemi che sconvolgono ed abbagliano, quando per porzioni di partita su questo o quel campo di calcio italiano, la Roma si sia trovata a giocare e che non possono, non debbono, sfuggire all’ammirazione del più smaliziato intenditor di calcio, quale che sia la squadra per la quale egli tifa.
Zeman è questo: sacrificio e sudore. Ma ti ripaga, per quei momenti, brevi o lunghi che siano, contro questa o quella squadra, vuoi di cartello che la meno blasonata di provincia.
Il caso vuole che a siffatti ordinamenti taluno non si sia abituato. Logica vuole che l’allenatore sia il timoniere, colui che ha in capo la responsabilità delle scelte. E’ lui che fa la formazione, non la piazza, non le radio, non tutto quel circo mediatico che alle sue spalle vive e lucra. Ma a Roma no.

Roma è una piazza difficile, chiosano tutti. Anche l’ultimo dei commentatori (tv o stampa che sia) ha imparato questa giaculatoria. E’ vero. Tifoseria attaccata alla maglia come poche. Però anche uno spogliatoio, una serie di giocatori ai quali il nostro indirizza il più sintetico e logico dei giudizi: “chi non si allena bene non lo chiamo”. Via cosi i De Rossi, e gli Osvaldo. Il primo, forte di un papà nella dirigenza della società, anche  bene del settore Primavera, si vede attaccato da una sorta di “lesa maestà”. E via con la fronda. Va in Nazionale, bontà sua segna, insieme all’italo-argentino, e giù la stampa a seminar zizzania…”ma come, questi li lasci in panchina poi vengono qui, in azzurro, e fanno cose strabilianti ?”. Tutti a dar giudizi, la strada del Boemo è segnata. Lui sembra non curarsene, fedele al personaggio: tira dritto per la sua strada, continuando ad alternare risultati a sorpresa. In breve la Roma ha il miglior attacco del campionato (il più prolifico, almeno, visto il numero dei gol segnati) ma altresì la peggior difesa (maggior numero di reti subite). Anche un cretino capirebbe che a tanta mole di gioco (chi ha contato i gol “mangiati” fin qui della squadra ?) non risponde una difesa degna di questo nome. Da anni tallone d’Achille della squadra, quale ne sia l’allenatore.

La difesa fa acqua. Inutile qui dilungarsi sulle colpe. Salvo la  sorpresa di Marquinhos, una timida rivalutazione di Piris, il lungo infortunio di Burdisso che ce lo riconsegna irriconoscibile se non a tratti. Troppo poco. Aggiungiamo la nota dolente dell’estremo difensore. Colui che ha il compito di sostare fra i pali. Qui si consuma il carosello. Parte titolare l’olandese dal cognome subito contratto in slang “Stek”…(che elemburg già so’arrivato sul raccordo…), per poi cedere il passo al rumeno Lobont (senza infamia e senza lode) infine per approdare all’acquisto estivo Goicoechea (del quale si favoleggia la “bravura coi piedi” quasi fosse un plus di cui andare fieri, al cospetto dei dettami di gioco del Boemo).

La colpa non è dei portieri. Questi ultimi possono poco se una difesa tenuta ostinatamente alta prevede in luogo di tanti piccoli Mennea (per restare ad un esempio italiano) timide comparse di ciò che dovrebbe essere un terzino moderno. Trovarsi soli davanti ad un avversario che ti arriva a cento all’ora non è colpa tua: è segno che qualcuno non ha fatto argine come doveva. Punto. Aggiungiamo che le papere sono figlie dell’insicurezza comminata a piene mani da un combinato disposto fra una supposta Dirigenza e un Allenatore pervicacemente convinto della giustezza dei propri schemi.

Vogliamo dare ragione agli schemi del Boemo. Diamo per buono che siano essi validi e capaci di dimostrare un calcio diverso, meno noioso e catenacciaro di quello cui ci hanno abituato secoli di trainer venuti su alla scuola del “primo non prenderne”. Perfetto. In questo caso una Dirigenza degna di questo nome, forte della supposta capacità economica della Proprietà, si mette sul mercato e sceglie gli interpreti migliori per questo tipo di gioco. Hanno sbagliato in estate ? Ci sono gli esami di riparazione in gennaio. A gennaio è stato acquistato un solo altro giocatore, greco (tanto per restare in tema di tragedia) che abbiamo visto giocare per uno scorcio di gara, peraltro insufficiente a giudicarlo appieno, proprio la scorsa domenica in quel di Bologna. E gli altri ?  Quale che sia la motivazione addotta dal tecnico, una dirigenza degna di questo nome, chiama la Proprietà, rappresenta le difficoltà (leggi: facendosi aiutare da un valido traduttore) ma fa in modo e maniera di spiegare che se non si trovano gli interpreti adatti a tale tipo di gioco, difficile si possano raggiungere dei risultati. Invece niente.

Infine, la “peggiore settimana della mia vita”. Sabato scorso, a ciel sereno il Boemo sbotta…”in società non ci sono regole”. Messaggio in chiaro please. Che vuol dire ? Con chi ce l’ha ? Coi giocatori ? Con i Dirigenti ?
Forse con quest’ultimi. Ammettiamo fossero loro i destinatari della bordata. La partita di Bologna, quasi con noia ripropone lo stesso schema: un film già visto, attacco prolifico, spettacolare, quanto inconcludente, difesa che si apre come una margarina lasciata per distrazione vicino ad un fornello acceso.
Lunedi prende la parola Sabatini. Tuona che il tecnico ha osato criticare la società. Mica si fa un esame di coscienza. Mica si chiede della validità dei suoi acquisti. Mica si interroga se si è dialettizzato bene col Boemo. Niente di tutto questo. Zeman è ufficialmente sulla graticola, Esposto al pubblico ludibrio. La Società (o meglio, il sig. Baldini e il sig. Sabatini) badano sostanzialmente a pararsi reciprocamente il culo, ignari del secondo flop (la scelta del trainer) in poco meno di due anni. Salvo poi alla vigilia dell’incontro in casa col Cagliari finire a tarallucci e vino, come niente fosse accaduto.

Siamo a ieri sera (e dire volevo andare allo Stadio). A petto di un primo tempo “decente” (anche se in avvio preso il solito gol per dormita collettiva della difesa) si riagguanta il pareggio grazie a San Capitan Totti, che a dispetto dell’età, dei miti cresciuti in questi ultimi tempi è l’unico, dall’alto dei suoi 36 anni ad uscire dal campo guadagnandosi la pagnotta e inseguendo quel miraggio che ha ogni giocatore in attività nel nostro campionato: quello di raggiungere quota 274, ad opera di Piola Silvio, vatti a ricordare in che anni.

Morale.
Volti terrei, facce da circostanza, la sua no, è la stessa. La tenerezza del mister nelle interviste del dopo partita col suo desiderio di restare altri cinque anni, la polpetta avvelenata, la testa che la piazza richiede (ma quale ? Quella di quattro scemi dietro ad uno striscione? Quella delle radio che campano incassando pubblicità per raccogliere la solitudine dei numeri primi: di quelle migliaia di romani attaccati alla maglia più e come di una ventosa su di un vetro). No, il culo al caldo dei due signori in parola (perché non definirli geni a sto punto?) è garantito. Che a pagare sia il profeta. Che se ne vada. Che noi restiamo al nostro posto, capaci di chissà quale altra stronzata, con buona pace dei dollari che i danarosi americani si apprestano ad investire per il nuovo stadio e in un delirio di merchandising mondiale).

Una triste parentesi. Dalla quale non esce bene nessuno. I giocatori, d’accordo, molti dei quali per limiti non a loro imputabili, sebbene a chi li ha scelti. Zeman stesso, incapace in un ambiente come quello romano di saper dare la guazza, ma troppo fedele a se stesso ai limiti dell’autismo, sordo fino all’ostinazione difronte agli evidenti squilibri che la squadra ha denotato. E infine a loro, a questa coppia di sciagurati che sapranno per carità fare il loro lavoro, ma di motivazione e tempismo ci capiscono quanto Fantozzi di biologia molecolare. Che vadano a casa, si. Anche loro.
E’ ingiusto che a pagare sia solo il Mister.

E che si riapra infine, dopo un doveroso repulisti: via primedonne, fuori chi non lotta, una nuova stagione, dei nuovi successi all’altezza dell’affetto che la tifoseria tutta dimostra per questi colori.
Ciao Zeman,
mi mancherai.