26/11/10

La stanza degli animali, di Giulio Mozzi

la copertina del libro


Segnalato quasi con timidezza dal proprio sito, ho preso questo piccolo volumetto di Giulio Mozzi,
edito da duepuntiedizioni, La stanza degli animali.

Si legge d’un fiato, contando su un numero sparuto di pagine. La mia lettura è avvenuta sui comodi divani di uno studio dentistico mentre ero in dolce attesa del mio turno. E mai attesa fu più gradita.
La scrittura di Mozzi ha del terapeutico. Il ritmo della sua narrazione a volte ossessivo, a volte immediato e spedito come il taglio di un bisturi, permette di lasciarti prendere per mano per farti un giro gratis sull’ottovolante della sua fantasia.

Il lavoro si muove intorno ad un dramma, dove però l’effetto di un avvenimento sconvolgente quasi non si percepisce. Viene lasciato in background, a far da tappeto, riducendolo in modo quasi ignobile a puro pretesto. Dal lavoro di scavo viene fuori invece tutto il resto, il passato di un padre,
la sua relazione con il figlio che narra, e il rapporto con i luoghi, le cose.

Ed è da queste “tangenze” che viene fuori il meglio di Mozzi, dall’andare ad indagare anche i semplici oggetti, con il loro carico, non detto, ma portante emozioni, affetti, conflitti, osservati con un distacco asettico, dove a prevalere (questo sembra esserne lo scopo sotteso) siano piuttosto le infinite variabili che si ribellano ad un corso di narrazione prevedibile e scontato.

La sorpresa, in altre parole. La ricomposizione di un fatto a partire da una differente maniera di mettere in relazione le parti che lo compongono, e che danno vita, qui la magia, ad un altro modo di narrare. Attenzione, non un puro e solipsistico esercizio di stile. Qui siamo in un nuovo territorio, lasciato alle spalle l’autocompiacimento dello sperimentatore della prima ora, Mozzi regala al lettore un’opportunità, segnando con suo stile un’altra maniera di raccontare oggi in Italia.

Ecco, se mai la valutazione dovesse prescindere dal testo in sé, questo piccolo volumetto possiede la grazia di lasciarsi leggere con un’attenzione inversamente proporzionale al numero delle sue pagine, lasciandoti, alla fine, con uno strano retrogusto.La capacità di spostare il tuo sguardo altrove, come nemmeno un navigatore satellitare saprebbe fare, in una giornata di nebbia. Dando al lettore la possibilità di dirsi appagato, lontano da effetti speciali e fuochi d’artificio, per una storia raccontata con un tono di voce quasi sussurrato ma deciso e impietoso.

C’è un autore che me lo ricorda, in modo prepotente, quando Mozzi scrive cosi ed è Williams Carlos William. (in particolare il suo Patterson). Non suoni irriverente nei confronti di entrambi, ma sono tante le assonanze, di ritmo, di poesia, di modo di guardare, con questa meraviglia trattenuta e controllata, e che lascia parlare le cose, affinando l’esercizio percettivo dei sensi, concedendo, per tutto il tempo della lettura, piccoli attimi eterni di felicità.

Da leggere.

24/11/10

Inception


Cosa c’è da dire su Inception ?

Niente. Andate a vederlo. Anche senza aver calato prima lsd.
Un gioco. Mind game, ecco. E infondo, l’avverarsi (per la sola durata della pellicola) di un miraggio, quello della condivisione dei sogni.

Quante volte, quante volte, al risveglio o anche durante il giorno, al semplice sopravvenire di qualche dettaglio che funzioni da ancoraggio, ci vengono a galla, inaspettati, spezzoni di sogni, che prim’ancora che percepiti con metodica fedeltà ci rimandano il loro inconfondibile sapore.

Personalmente sono attratto dallo stato di semi veglia, in genere post prandiale, durante il quale, va a capire perché, il cervello riannoda in automatico i fili del sogno interrotto la notte prima, consentendo, come fosse un consumato sceneggiatore, di riprenderne la trama.

Il film, se si elude questo passaggio condiviso, risulta altrimenti incomprensibile. Mentre invece ti incolla alla poltrona, prendendosi gioco di unità di misura come il tempo, le distanze, le assonometrie.

L’idea è carina, ma volendo astenersi da qualsiasi spoiler, posso solo suggerire di andare a vederlo con un briciolo di sospensione dell’incredulità. E’ una favola, ben raccontata, ritmo, e se in condizioni di media sobrietà, ha anche il pregio di risultare mediamente comprensibile a chiunque.

Male che va, in una delle prossime serate grigie, e umide, e fredde, tappati in casa, il fuoco nel camino, del Calvados in un bicchiere largo da brandy, sprofondati su una poltrona, si presta ad esser rivisto, con la debita concentrazione (visto in un multisala che di suo, sembrava disegnato dall’architetto che ha curato le scene).

Bello.

19/11/10

Stanno tutti bene

De Niro ha una maschera che ti perfora. Tratto da un romanzo, qualcuno sostiene invece sia il remake di un omonimo film di Tornatore, stasera ho visto Stanno tutti bene.
Se non fosse per l’immancabile bella canzone nel finale (di Paul McCartney), mentre scorrono i titoli di coda, ho notato che lo sparuto pubblico che assisteva alla proiezione, contrariamente a quanto accade di solito, ha indugiato un bel po’ prima di spostare le chiappe dalla poltrona. (Fuori pioveva svogliatamente).

Stanno tutti bene, è un film ben montato, agile, che ti prende toccando inevitabilmente il rapporto che bene o male ognuno di noi ha avuto (o non ha avuto) col proprio padre.
E’ un ontheroad atipico. Dove a muoversi, dopo la morte della consorte, è un anziano padre in pensione, in vena di “sorprese” per i propri quattro figli (che tema, la vecchiaia, l’incedere degli anni, l’avvicinarsi della morte, da Estwood di Gran Torino, al Nicholson di A proposito di Smitdt, sarà che la popolazione invecchia e con essa anche questi grandi mostri sacri sui quali sembrano attagliarsi questi soggetti).

E’ Americano, si. Ma non si fa fatica a ravvisarne le dinamiche anche nella nostra (tutta speciale) famiglia italiana. Ci sono i cavi del telefono. C’è il caucciù col quale li ha ricoperti “per chilometri e chilometri” durante l’attività lavorativa, questo anziano padre di colpo, alla morte della moglie, in pensione, ansioso di darsi un ruolo a partire dal rapporto con i figli. Questi cavi portano le voci, e sono le considerazioni del protagonista, durante i suoi lunghi viaggi in treno a indurre gli ignari passeggeri a condividere insieme a lui i ricordi…(a tratti mi ha ricordato una poesia di Carver, quella su una cabina telefonica, c’e’ una donna che lui osserva, dalla sua mimica cerca di interpretare la qualità delle notizie che ha appena ricevuto, c’è l’indifferenza del mezzo, capace di trasportare, insieme, notizie belle insieme a quelle meno.

Bello, a tratti commovente, e magistralmente interpretato da un De Niro ispirato come poche altre volte. A dispetto degli anni, la capacità di rendere la solitudine e la stoica commozione davanti al risultato dei suoi sforzi, e l’ossessione della stessa domanda, rivolta a tutti i figli “sei felice ?”.

Andatelo a vedere.

16/11/10

C'è lo zampino di Steve Bishop ?

Dalle brevi di cronaca (che adoro) del sito corriere.it (rilanciata anche alla radio) la notizia dell'arresto per un banale controllo di un giovane vietnamnita, (tale Pham Hai Nam), che circolava con una carcassa congelata di tigre nel bagagliaio.

Steve Bishop, brillante conduttore del Procasma (noto locale alla periferia di Roma, famoso per la stravaganza di ospitare anfibi, rettili e ogni altra forma animale proibita) ha subito precisato. "Respingo con sdegno ogni e qualsiasi accostamento al fatto: come noto il requisito principale dei nostri amici animali ospitati nel locale, è che siano in vita".

Respingendo pertanto qualsiasi illazione in merito.
Resta il fatto che al giovane trentanovenne vietnamita, pare sia stata trovata in tasca una piantina di Roma, con un cerchio misterioso fatto a penna, intorno alla zona dove insiste il locale.

"Le indagini continuano", cosi ha detto un portavoce dell'ufficio speciale che reprime l'importazione illegale di animali esotici.

12/11/10

Prove tecniche di regime







Un tempo si diceva "mettere la mordacchia"...(qui , per maggiori delucidazioni).

Non sono d'accordo su quasi niente di ciò che scrive, ne del modo in cui lo scrive.
Ciò nonostante trovo barbara la disposizione attuata ieri dal Consiglio dell'Ordine dei Giornalisti.

06/11/10

Animal Kingdom , di David Michôd

james frecheville









Una vita che non andavo al cinema da solo.

Succede che ho qualche ora di tempo. Succede che è sabato pomeriggio, che è presto e che nel multisala danno 4 film. Andare al cinema al buio, senza cioè sapere nulla di ciò che si va a vedere, è una cosa che mi ha sempre entusiasmato. Si, d’accordo, somiglia alla roulette russa, ma almeno, se dopo prendi la tramvata, puoi anche non prendertela, per una volta, con la critica compiacente di qualche cosiddetto esperto di cinema che si guadagna (male) il pane gestendo una rubrica dedicata, fa niente se in tv o sulla carta stampata.

E l’esperimento magicamente è riuscito.
Girato da un esordiente australiano (David Michôd) il film è un piccolo gioiellino.e rimanda già dal titolo a quella vena di apparente incogruenza fra questo e il contesto della storia che narra. Un po’ come faceva Carver coi suoi racconti : Elefante, è un’epifania degli affetti familiari, e il dettaglio del nome di un gioco che il protagonista faceva con il suo babbo da bambino.

La storia in sé è abusatissima. Qui è il modo di raccontarla che ne fa un piccolo cammeo.
Stupendo il montaggio, vera e propria colonna portante del film. Mai didascalico, mai un’indulgere gratuito (come ci hanno abituato cosiddette grandi firme della regia mondiale ultimamente).
Animal Kingdom, è il doloroso percorso di iniziazione alla vita di un adolescente coptato in una famiglia di malavitosi.

La storia è tutta nel conflitto interiore di questo ragazzo (interpretato sullo schermo da un assoluto esordiente di una bravura stellare, James Frecheville) con il mondo nel quale entra in contatto controvoglia, più per vincoli familiari che per reale convinzione.
L’incedere degli eventi lo porterà, non senza dover soffrire, ad affrancarsi da questa dimensione,
e l’epilogo, anche se amaro, rappresenta insieme una condanna a restare inchiodato a quel mondo, ma insieme la biblica liberazione dal male (rappresentato qui da uno zio piuttosto malvagio),

Bella la colonna sonora, le scene, già detto, montate con intelligenza, con scorci di Melbourne molto suggestivi, zoomando su dettagli e allargando il fuoco. Fresco, ben girato, il film, cosi recitavano le didascalie sui manifesti all’entrata della sala, ha vinto il Sundance film Festival di quest’anno, ed è stato definito il miglior film crime australiano.