30/12/13

Il quarto Stato.











Ho visto il Servizio Pubblico di ieri sera.
Si, quello su “la terra dei fuochi”. Non ho parole. O forse si, qualcuna mi viene.
Ma non è il solito rito dell’indignazione. No. Quello che in questo modo di fare giornalismo non va giù è la spettacolarizzazione del dolore. E questo chiama in causa la qualità dell’informazione. Ma è l’aspetto come dire “a valle”. Che ci confonde, e rispetto al quale tutti i dubbi sono legittimi. Come quello che, denunciando in questo modo,  poi tutto, ripeto al di là dell’indignazione, resti come prima.
Le parole di un pentito, si dirà. Depotenziando in partenza. Svuotando di credibilità. Ma dopo, dopo l’emotività cosa resta?

C’è un fatto, nel profluvio di parole che sono state spese, che da solo varrebbe in qualsiasi altro paese una mezza sollevazione popolare. Ed è il silenzio col quale le autorità hanno sepolto due volte la gente di quei territori. Ci sono servitori dello Stato che si sono ammalati per assolvere al proprio dovere andando ad indagare in quei territori. Ce ne sono altri che avranno continuato a vivere indisturbati da venti anni in qua.
E anche qui, la morale non basta. Parlo della condanna morale.

Vorrei che si conoscessero i nomi di coloro che hanno taciuto, si indagassero i loro conti correnti e degli stretti familiari. In altre parole chi ha coperto chi. Dopo di che, non un centesimo delle mie tasse a concorrere alle loro pensioni dorate e intoccabili. Le parole di un pentito, certo. Alle quali, da venti anni, nessuno ha prestato ascolto. Un arbitrio grave, nel paese dell’obbligatorietà dell’azione penale. Schiacciati da poteri occulti più forti di loro? Minacciati della vita dalla criminalità organizzata? Ma qui, se fossero confermati gli interramenti di materiali radioattivi, siamo agli effetti perversi di una Nagasaki a scoppio ritardato.
Nel frattempo difendiamo il Made in Italy, le mozzarelle dop, ci facciamo belli. Lì, in quelle terre, la gente muore, grazie al silenzio di chi ha imposto la secretazione di quelle confessioni.

Ci connota come Paese, la maniera nella quale siamo difesi da una Giustizia che dovrebbe, per statuto, tutelare la salute pubblica. Chi l’ha gestita in questa maniera, ai miei occhi, ha le stesse responsabilità di chi quei rifiuti tossici li ha interrati (dagli industriali che hanno avuto i loro vantaggi, alle bande criminali che l’hanno gestito, questo traffico immondo).

Il servizio si ferma sulla scena del pentito che si alza sdegnato, sotto l’incalzante e confuso accuse delle due mamme che hanno perso i loro piccoli, invitate anche loro in studio, promettendo di non voler più rilasciare interviste. 

Due Italie, anzi tre, ieri sera in studio.Quella di chi ha pagato per scelte scellerate altrui, quella di chi ha gestito (anche bene pentendosene quasi subito) e quella di chi, a venti anni di distanza ha ritenuto di farne un servizio di giornalismo di inchiesta.

Mancava la quarta: quella di chi ha colpevolmente insabbiato. 

17/12/13

Perchè Pistoia?

Perché Pistoia? Che è andata cosi bene la prima che l’abbiamo voluta rifare. Luglio 2013. E’ il decimo anniversario della morte di Roberto Bolaño. Abbandonati progetti per un convegno faraonico (nel puro delirio di cletusproduction) si dirotta su una cosa più intima, quasi artiginale. Organizzata alla bell’e meglio (complice il concerto di Springsteen che vedrà il Baldi convergere sulla Capitale) si trova la terrazza di un amico compiacente e si organizza al volo la cosa. Catering, un minimo di allestimento (larvato omaggio alle pagine stese di Amalfitano citate in 2666), telecamerina digitale, e diretta streaming con Milano dove il caro Gianni Montieri, parteciperà con un suo contributo. Le tracce della serata sono disperse nel web…(per chi vorrà, i link si trovano sotto).

Stavolta il genio della lampada, al secolo Martino Baldi, ci invita a Pistoia per ripetere, con altri mezzi, ma stessi amorosi intendimenti, l’esperienza di lettura di un racconto di Bolano: La prefigurazione di Lalo Cura, tratto da Puttane assassine (ed.Sellerio). La saletta è quella di una libreria nel delizioso centro storico di Pistoia. Il palco è esattamente grande quanto la sala riservata al pubblico. Stavolta, ci sono una cantante Claudia Tellini, un contrabbassista Nicola Vernuccio, e un trombone, Paolo Ciampi . Ah, e c’è Martino Baldi.
In abito di scena, magliettina con collo alla lupetto, pantaloni a tubo attillati, scarpe delle buone occasioni: tutto rigorosamente nero. A chi li ricorda, somiglia a uno dei Gufi…che vestivano in tal guisa, ai tempi d’oro di Milano. Si comincia. Martino legge con la consueta passione. Viene accompagnato dalla musica che, salvo qualche rara sbavatura sui tempi, si presta benissimo all’incedere del racconto.

La trama è esilarante di suo. Ma di quell’ironia che è tipica di Bolano, sottesa, mai debordante, quasi trattenuta, se non nascosta. Pronta a farsi trovare dagli occhi di chi lo legge non limitandosi alla superficie, eppure capace di distinguerla in un profluvio di parole. Le storie di un gruppo di giovani donne sudamericane, finite nel giro di un torvo esule tedesco (non sappiamo se transfuga dal nazismo, o artefice in clandestinità, come la nutrita accolita di connazionali in quel del sud america). Intorno a costoro, narrato in prima persona dal protagonista Lalo Cura appunto, si agitano le pagine più corrive dello scrittore cileno. Con il suo registro che spazia dal lirismo più puro alla decadenza mai cosi ben descritta. Come la vita, del resto.

L’incedere della lettura coinvolge il pubblico, e viene scandito da brevi pause durante le quali la cantante Claudia Tellini da prova della sua meravigliosa voce che è insieme calda, perfettamente intonata all’atmosfera del locale e originale per capacità di partire in controcanto, affrontando scale volutamente disarmoniche con la più totale disinvoltura. Martino scandisce di suo, sostituendo i cartelli coi nomi dei sottocapitoli. Il pubblico dimostra di gradire, nessuno applaude (per quanto strano possa sembrare l’ho interpretato come un segno di rispetto e non di mancata compartecipazione). E’ una festa.

Il racconto si sviluppa incardinato su questo ordigno narrativo, la commistione fra i passaggi più salienti e le sottolineature degli strumenti che aggiungono un che di straniante al tutto. Tutto si tiene, in un equilibrio minimalista che lascia solo grande spazio alla parola, alla narrazione di Bolano, al ritmo della sua scrittura. Che rimane grande, anche dopo ripetute letture. Termina la lettura. Ezio ha girato quasi tutto (salvo gli ultimi due tre minuti nei quali, tipico dei mezzi cletusproduction la batteria della telecamera ha fatto ciaociao).
Usciamo, guadagniamo prima un bar su una piazza contigua e da lì diretti in collina, dove a Serravalle facciamo da cavie (scherzo) alle genialità culinarie dello chef con un menù particolare ma alla fine anche particolarmente intonato alla serata. Una luna quasi piena, visibile da dietro la torre illuminata ad arte, e un giro di Talisker old 12, si incaricano di suggellare la serata.

Pistoia. Mi ci dovrei trasferire.

In attesa del montaggio del video di Pistoia, qui per chi ha facebook, una pagina con diversi link alla serata romana.

07/12/13

Morire a Roma, oggi.















Diciamolo subito. E’ un business.
Intorno a questa “tappa” della vita, sembra che l’epoca moderna non si sia evoluta come sarebbe lecito attendersi. Oppure no, ne è uno specchio fedele. Una pratica (dalla quale succhiano soldi diverse figure) e che va subito archiviata, divenuta merce consumata (leggi: incassato il dovuto, anche per quest’ultima incombenza) e subito da dimenticare per far posto ad un altro.
E’ sicuro: si nasce e (prima o poi) si muore.

Questa fase della vita dovrebbe e dico dovrebbe essere trattata con una grazia maggiore. Per un mix di compassione nei confronti di chi ci ha lasciato, e nei confronti di coloro, a lui cari, che gli sono sopravvissuti.
La delicatezza totalmente scomparsa. L’approccio alla faccenda è quello di una fredda pratica burocratica. Automatismi, logori, e privi di qualsiasi sensibilità. Eppure non ci vorrebbe poi molto.

Un mio amico fraterno se ne è andato. Tralascio qui ogni considerazione personale. Ma attraverso l’esperienza diretta che ho potuto vivere in questo frangente sono giunto alle seguenti conclusioni.
Il Policlinico Gemelli (a maggior ragione si fregia dell’aggettivo Cattolico) ha una sala mortuaria (pomposamente definita camera ardente) da far letteralmente schifo. Camerette buie, un che di sporco, colori inesistenti, prive di alcun decoro (attenzione non parlo di carte da parati e tendaggi in stile Liberty) ma parlo proprio di tinteggiatura delle pareti, gradevolezza degli ambienti nei quali i parenti e amici porgono l’estremo saluti ai propri cari. Lo squallore. Non ho altre parole.

Ma non è un caso, i luoghi tradiscono anche da come sono attrezzati (organizzati) quello che è la considerazione nella quale sono tenuti. E’ assodato che un luogo simile, ai margini di un grande ospedale, sia piuttosto “trafficato”. Pacifico. Quello che traspare, dietro questa assoluta mancanza non dico di gusto ma di attenzione, è il ritenere il luogo come una mera discarica. Anche delle emozioni.

Eppure, la morte, in chi continua a vivere, può essere foriera di un grande momento di riconsiderazione.
Per proprietà transitiva, dal modo col quale rendo confortevole il momento ai parenti dei defunti, può attendersi una rivalutazione delle rispettive esistenze. Siamo, quanto a cività dimostrata in questo caso, a latitudini nemmeno tribali, dove voglio credere il momento della morte sia trattato con maggiore, ancestrale rispetto.

Qui è il territorio del disprezzo, della noncuranza, della sciatteria. Basta, sei finito, sei morto, che cazzo vuoi pure una stanzetta illuminata? Personale appena appena cortese e non dico partecipe (come le prefiche) ma almeno meno incarognito in un cinismo esibito che ne tradisce la miseria, l’attitudine alla miseria interiore incapace di considerare pure un momento come questo, anche solo in misura percentuale, come proprio, nel senso di appartenenza ad un genere umano, ad un contesto sociale, e sicuramente (qui, nessun dubbio) destinato anch'esso a sicura fine, foss’anche posticipata.

Quindi vergogna doppia. Un policlinico che si dice Cattolico e che proprio nel modo col quale tratta la morte (mica una roba da poco: c’e’ tutta una letteratura, chiamiamola cosi, che si incarica di trattare la faccenda, per evidenti intenti promissori: il paradiso, la resurrezione dei morti ed altre categorie che tanto hanno dato da scrivere ad illustri esponenti dell’omonima Chiesa).

Veniamo all’aspetto laico. Quanto a sciatteria non è da meno (da qui la sconsolata constatazione di quanto sopra: siamo proprio una società che la snobba la morte, su varie scale di ineleganza, sfumature).
Qui, l’avvento della crisi, ha portato addirittura degli attenti studiosi del costume a stilare statistiche circa il dilagare della pratica della cremazione (leggi: assenza di fondi necessari ad acquistare un loculo). Dalla freddezza statistica di un annuario Istat, e dal conseguente articolo di costume del giornalista di turno, si passa ad un contatto col reale.

Il boom (che buffo chiamarlo cosi, trattandosi di un momento di totale silenzio) delle cremazioni ha fatto si che ci sia anche una lista d’attesa. Cimitero di Prima Porta. Un’area adibita a questa operazione. I parenti assistono al trasbordo della bara dal carro (nel nostro caso: un furgone dell’AMA) ad una sorta di barella davanti ad un cancello che si apre con una frequenza importante (solo mentre sono rimasto lì oggi, in tutto un paio d’ore, saranno arrivate almeno una decina di salme).

L’operazione si presta anche a momenti involontariamente comici. Parenti che si assembrano intorno alla bara, nel momento dell’ultimo saluto prima dell’immagazzinamento (in genere la cremazione, c’e’ una lista d’attesa, avviene dopo una decina di giorni circa…) sovrapponendosi ai parenti di un’altra salma. Un ingorgo funerario, dove ci scommetto, alla fine qualcuno piange qualcun altro (e qui si riverbera il concetto che la morte di un qualsiasi uomo è affare che ci riguarda tutti). Ma è tutto per via indotta, sciatteria, freddezza burocratica, poco più di un fastidio.

Gli operatori, “gente rotta a tutte le emozioni” chissà, devono aver sviluppato un senso del cinismo proprio per sopravvire in un ambiente come quello, come autodifesa intendo, volendo incedere ad una logica assolutoria viziata dal politically correct. Ma è indubbio che sentir sollecitare una giovane donna in divisa "verde-ama" i proprio colleghi con un poco poetico “aho, sbrigamose c’ho tutti i forni vòti” è espressione sicuramente non dico di un mancato corso di perfezionamento ad Oxford, ma proprio dei fondamentali del rispetto altrui, svelando senza troppi infingimenti e in barba ad ogni considerazione poco poco offensiva circa il presunto strato sociale, degli individui poco o per nulla educati e pertanto lecito pensare siano stati messi lì (chissà le pressioni, in fondo è uno stipendio sicuro, un “posto fisso”) senza star troppo a formarli su una categoria come il “tatto”, elemento ritengo più che distintivo in chi si deve relazionare con un’operazione che smuove una cosa come i sentimenti, la fine della vita.

Quindi, zero totale anche qui.
Con il che si ripete. Non si cercano maggiordomi diplomati alla gran corte. Ma almeno persone, individui, cui andrebbe insegnato che anche dalla civiltà con la quale si tratta la Morte, ne discende una cosa che chiamano qualità della vita. E quella piccola differenza, che nei secoli, è stata coltivata per arrivare a distinguerci dalle bestie (le quali, ne sono certo, quanto ad emozioni, gli etologi moderni stanno scoprendo che ne avrebbero da insegnarci).


PS. Unico, piccolo, segno di attenzione, la presenza di uno spazio realizzato nei pressi del forno crematorio, inevitabilmente nominato “Il giardino dei ricordi”, circondato da piante, qualche basso muretto che funziona da panca, davanti ad una splendida visuale di una vallata non edificata,  e da una zona nella quale consentire ai parenti di raccogliersi e di disperdere le ceneri dei propri defunti. Ma di questo mi occuperò in un altro post.

risorse:
Truffe ai danni dei parenti dei defunti: http://www.corriereromano.it/roma-notizie/1883/informazioni.php
Giiustificazioni dei vertici AMA circa i ritardi: http://www.ilmessaggero.it/roma/cronaca/prima_porta_lo_scandalo_delle_sepolture_ama_tutta_colpa_delle_agenzie_aspettano_giorni_per_presentare_richieste/notizie/243969.shtml
Il giardino dei ricordi: http://paesaggiocritico.com/2013/03/06/il-giardino-dei-ricordi-al-cimitero-flaminio-prima-porta-roma/ricordi-3/



30/11/13

Il Teatro degli oggetti, di Fulvio Abbate.



















Cosi l’altra sera c’è stata la prima.
In una sala del Teatro Argentina, convintamente riempita, è andato in scena lo spettacolo Il Teatro degli oggetti, protagonista Fulvio Abbate accompagnato da una valente fisarmonicista Désirée Infascelli.
Trattandosi di Fulvio Abbate, indiscusso protagonista di Teledurruti, un Frank Zappa prestato ai giorni nostri, non aspettatevi una pieces teatrale ordinaria.

Sovvertendo gli stereotipi, lo spettacolo non è tanto sostenuto dall’attore, qui i protagonisti sono gli oggetti, i più strani, semmai narrati in modo mai verboso o freddamente didascalico, da Abbate, graziosamente interpuntato da motivi alla fisarmonica.

L’effetto sulle prime è straniante. Sembra di assistere ad una delle tante conferenze di Ted, la congrega d’oltreoceano, impostasi come “pensatoio” del nostro attuale.
Abbate invece, con la semplice esibizione di oggetti, svolazza fra la poesia, la malinconia che è fisiologicamente “in bundle” coi ricordi, e attimi di totale ilarità.

Una capacità rara, diceva qualcuno, quella di far scattare una narrazione già solo da un banale (che, appunto, non lo è quasi mai, in questo senso) oggetto.
Da registrare l’impiego delle luci sui primi piani degli oggetti, replicati su un grande schermo alle spalle del palco, e una maggiore scioltezza (con rarissime sbavature o momentanei cali di tensione).

Abbate è un piazzista di emozioni, ci fa rivivere per tutto il tempo, il profumo dell’epoca cui sono appartenuti gli oggetti (di tutto: santini di Sante cilene dimenticate, venerate da ladri e prostitute per supposte capacità di rendere invisibili coloro che ne osservano il culto, appartenenti alla categoria appunto, pomelli del cambio che saranno stati motivo di vanto di coloro che li hanno impugnati, nel corso degli anni, foss’anche a bordo di comuni utilitarie).

E ancora anelli forgiati col metallo di B52 abbattuti dai Vietcong, statuine di JKF e del suo successore. Insieme il festival del kitsch, proiettato in un altrove, dove la valenza della pura materialità, come dice lui, trascende, sottraendosi alla perdita di significanza, anche se decontestualizzata.

L’interrogativo è semmai questo. Cosa rende certi oggetti immortali, immarcescibili? Il nostro occhio demodè o l’intrinseco valore che, sebbene estratto dal momento della loro creazione, ci sopravvive?
Nell’emporio Abbate, c’è posto anche per il simbolismo. Su tutti, un dischetto (marca Geloso, ha tenuto a specificare) che veniva usato per ascoltare i 45 giri sui piatti dei nostri giradischi, altrimenti nati per consentire l’ascolto dei 78 giri.

E’ come andare al lunapark. Un’ora e mezza di ginnastica delle sinapsi, abilmente sollecitate dalla prosa affabulante del “Marchese” e da un potente dejavù col quale, probabilmente, molti di noi, non hanno ancora finito di fare bene i conti.
Bravo!

la foto è di Giorgio Crisafi.

25/11/13

Per Antonio.

Adesso che sei in un letto d’ospedale,
come ti ho visto ieri,
con tutti quei tubi attaccati,
tu che sei il mio fratello minore,
tu che hai camminato con me
per chilometri,
che ti incazzavi contro le ingiustizie,
con la veemenza di un adolescente,
e mi prendevi in giro,
tu, che ti puzzavano i piedi,
quando dormivamo in tenda.
Ascoltavamo Battisti,
e tutto ci sembrava a portata di mano.
Poi, poi gli stessi percorsi,
la stessa voglia e rabbia di vivere,
facendoci fare cazzate.
Poi il nulla, il silenzio.
Per tanti anni.
Fino a dieci anni fa.
Nel frattempo, figli, lavoro, testa a posto.
La vita, praticamente.
I momenti insieme,
ma mai, mai con quel senso di imbarazzo
che il tempo si diverte a corredare,
in circostanze come queste.
No, sembrava ci fossimo lasciati il giorno prima.
Intatta la voglia di vivere, meravigliarsi, di costruire.
Momenti insieme,
in mezzo al mare,
da soli, in silenzio al largo.
Le nostre pescate inconcludenti,
cui mai abbiamo concesso il lusso
di deluderci.
Poi i problemi di salute,
il trapianto.
La tua lotta per riuscirci,
l’avevi piegato, c’eri riuscito.
Ora sei lì,
disteso, assente.
Se non fosse per quella selva di tubi,
che ti entrano in ogni angolo del corpo,
si direbbe che ti stai riposando alla grande.
Ti parlo, non mi senti.
Ho portato le cuffiette,
volevo farti sentire un brano di Joni Mitchell
che so che ti piaceva.
Non hanno voluto te le appoggiassi,
passando attraverso qualche tubicino,
alle tue orecchie.
Sei lì, ti chiamo e non ci senti.
Ma sei lì, il tuo battito certifica
che ci sei ancora.
Solo, la tua testa è altrove.
Dovunque sia,
il gioco,
lo sto scoprendo solo adesso,
è come un richiamo.
Sto qui, da qualche parte,
e ti aspetto, è come mi dicessi.
Solo un miracolo, però,
vorrei essere io quello
raggiunto, dal tuo ritorno.
E accetto il tuo regalo.
Anche per questa, preziosa,

lezione di vita.

17/11/13

Venere in pelliccia, di Roman Polansky












Non ci andate. O meglio, fate come vi pare.
Da ieri sera mi interrogo sulla potenza del marketing. Ci casco sempre. Quasi che l’equazione: frequenza degli spot sottenda conseguente qualità. Non è cosi. O se lo è, lo è raramente.

Adesso datemi dell’incolto, di quello che non ne capisce niente, di uno che al cinema ci va per caso.
Va bene tutto, me le prendo tutte. Ma qualcuno mi dica, argomentando se può, perché mai registi alla frutta (in genere in la con gli anni) decidano di effettuare un’operazione che quasi mai riesce bene: trasporre una pièce nata , e pensata per il teatro in un film.

La cosa migliore (e impareggiabile ad oggi, per me) è stata The big Kahuna  di John Swanbeck , tratto da una commedia teatrale di Roger Rueff, che ne ha curato anche la sceneggiatura. In questo caso, Polansky trae da uno spettacolo di Broadway di tal David Ives, larvato omaggio a Sacher Masoch,”teorico” del masochismo.

Cosa fa la differenza?
Anche in Venere tutto il film si svolge in un unico ambiente (un teatro vuoto). Pochi gli attori (in The big kahuna, le performance stratosferiche di Danny DeVito  e, Kevin Spacey) in questo una  Emmanuelle Seigner molto brava e bella e un pressochè sconosciuto Mathieu Amalric (ma terribilmente somigliante al regista da giovane).

Allora cos’è che non va?
E’ una pizza: dialoghi nei quali si consuma una catarsi per un’ora e mezza, i protagonisti recitano a loro volta le prove di un copione (eppure l’argomento sarebbe anche hot, per saziare quel 3% di vojeurismo che consente al gossip di fatturare cifre importanti).

Non va. Non basta. Polansky è stato capace di meglio (un mio amico: “Il pianista? Lo rivedrei ogni giorno” -invero ne all’attivo anche altri non meno belli). Eppure il bisogno di fare cassa a volte ti fa scivolare su operazioni impervie, ma che contano, qui il colpevole “comparaggio” della critica militante, sulla cassa di risonanza che gli viene dal nome (e da non proprio trasparenti vicende personali).

Se vi piace il teatro, andateci. Al teatro.
Non svilite cosi un’arte (cinematografica) nata per altre cose.

Alternativa: tornare a casa e vedere Arbore fino quasi alle due di mattina, per riprendersi dalla legnata.

03/11/13

Charles Bradley a Roma.















Ieri sera, in un locale occupato (cosi ci tengono a chiamarlo), l’Angelo Mai Altrove, in via delle Terme di Caracalla si è esibito per la prima volta a Roma, “la leggenda urlante del soul”, Mr. Charles Bradley.
Voglio bene a quest’uomo. Alla sua musica, alla generosità che ci mette quando impugna il microfono (fosse in studio come onstage) e condivide la sua personale idea di umanità.

Uno di quei pochi casi nei quali la vita dell’artista non è, non può essere discinta dal modo col quale fa spettacolo, si dona. Ieri sera a beneficio di un migliaio di persone accalcate all’inverosimile in una location davvero troppo inadeguata per i tanti che evidentemente hanno imparato a conoscerlo e desiderosi di vederlo dal vivo.

Un mio amico ha trovato bizzarro che un ensamble votato al soul (anche bene rivisitato, con venature gospel, funky, blues) non abbia, oltre a lui, altri musicisti neri (si, per via di un retaggio duro a scomparire che vuole ribadita l’equazione, ritmo, passione, dolore e verità, solo se si tratta di gente nera).

Privo delle coriste (la cui assenza si è fatta sentire), ma con i ragazzi dei fiati (una tromba e un sax) che se mai dovessero istituire un Nobel apposito non avrebbero alcun problema ad aggiudicarselo, la sezione ritmica tenuta su da un batterista che ha sudato le famose sette camicie, ma deboluccia per quanto riguarda basso e chitarra. Ma è poco più di un dettaglio. Chi ha tenuto su la serata, cambiandosi ben tre volte (chissà, sudore senz’altro, ma anche un sorta di rito…) è stato lui, questo pluri sessantenne che da una vita di stenti e difficoltà, è arrivato al successo da poco, incidendo due dischi uno più bello dell’altro.

Bradley ha una voce che non può lasciare indifferenti. Generoso, la sfrutta in tutta la sua estensione, come fosse uno strumento che si innesta perfettamente nella macchina che gli produce il sound. I testi delle sue canzoni parlano di AMORE, amore allo stato puro, l’amore che solo chi ha sofferto tanto è in grado di ammantare del suo significato più vero. E’ un vero, Bradley. Niente infingimenti né pose da superstar, per lui l’imperativo è condividere, raccontandosi senza pudore, nelle sue sofferenze, ma anche nella grande forza di volontà che lo ha portato al successo in zona cesarini.

Ha snocciolato le sue canzoni più belle. Ha esordito con Crying in the chapel

(http://youtu.be/Ge-tqOZ1no4) forse la sua più bella, andate al minuto 3:10 dove la sezione fiati si guadagna, con un crescendo bellissimo un posto nella classifica delle più belle chiusure di sempre, per poi proseguire con altri brani dei suoi ultimi dischi.

Col passare dei brani la sua voce, è andata via via trasformandosi, tenendo il palco, non potendo fare a meno di spendersi, fino ad arrivare ad una cosa a metà fra un urlo e un sussurro, grondante sudore (non credo solo a causa della pessima areazione del locale, dove fra l’altro, c’era un fumo che si tagliava a fette).
Il pubblico stordito dalla sua vitalità, da un’energia che a dispetto degli anni, riverbera in ogni sua canzone.
Poesia, in un certo senso una capacità di interpretare tanta vita e trasfonderla in musica, sound ora potente ora aggressivo, ora pregno di una passione non comune.

Ecco, la passione. E’ questa la sua marcia in più, la sua autentica forza della natura. Indomabile, generoso, in altre parole: umano. Charles Bradley, un uomo che ha lasciato agli altri il compito di farne un personaggio. Lui è cosi, e a torto o a ragione oggi è diventato una leggenda.

20/08/13

Leggere in vacanza

Leggere in vacanza.
Devo avere qualcosa che non va. Non riesco a leggere, da qualche tempo in qua.
Vagheggio di andare via, anche solo qualche giorno, per ritornare,  il bulimico di letture che ero.
Cosi, quando preparo la borsa…metto dentro tutto quello che staziona, spesso da mesi, sul tavolino.
Vecchi amori, flirt improvvisi, poi lasciati lì a decantare, fino alla prima occasione. Questo spesso sono i miei libri.

Ho messo in valigia e ho letto:
Un catalogo di una mostra storica tenuta nel 2005 sull’Eur, a cura ovviamente dell’ente omonimo.
(mi serve per mettere dentro materiale sul quale devo elaborare una storia).

Poi Bolano. Stavolta, il recentissimo Romanzetto Lumpen, e il mai concluso Notturno Cileno.
Stupendi entrambi. Il primo si legge in un paio d’ore, poesia. Il secondo poesia anche lui. La scena del gesuita che spiega il marxismo a Pinochet vale il libro.

Poi Solo per Fumatori, di Julio R. Ribeyro, una raccolta di racconti uno più bello dell’altro. Scritti con un’asciuttezza particolare, soprattutto l’ultimo che narra di una coppia di amici (europei) che ogni anno tornano sulle coste del Perù sperando di trovare il luogo ideale (naturalmente isolato e sperduto) sul quale erigere una casa fronte mare.

Ho attaccato e concluso L’America non esiste di Antonio Monda. Malato di USA come sono, l’avevo preso per il titolo, non sapendo nulla dell’autore. Dopo averlo letto (e comunque apprezzato nonostante alcune gravi incongruenze) ho cercato news su di lui e ho scoperto che è nato a Velletri…vissuto ai Parioli, poi NewYork a manetta e la cattedra lì, esperto di cinema (il libro è ricco di citazioni) è spesso sul patrio suolo per organizzare eventi, una bella testa.

Infine, perché poi i giorni finiscono e ho dovuto riprendere la strada di casa, interrompendo l’idillio, Sparire di Fabio Viola. Del quale avevo apprezzato la presentazione qui a Roma, mesi fa. Fabio ha stile, racconta con garbo una storia che è un on the road ma con grande capacità introspettive.

Testi eterogenei, per stile, per tono. Ma va bene cosi. Un piacere raro. A bordo piscina, qualche volta con gli auricolari (quando la compagnia è troppo rumorosa e mi deconcentra), altre volte solo, sprofondato nelle pagine, divorandole una dopo l’altra per evadere, in un altrove dove regna la fantasia e lo sforzo degli autori per condividerla dalle pagine di un testo.

Avevo altri testi da leggere…Lucina di Moresco, e una roba piuttosto lunga Le leggi della frontiera di Cercas (amico di Bolano) ma per una serie di motivi ho anticipato il rientro.
Confido in questi giorni di semi-ferie, a casa, magari su una sdraio in giardino, Autan a manetta, e zanzare permettendo.

04/06/13

Il valore di una fotografia.















Monica(*) mi chiede qual è per me il valore di una fotografia.

Beh, dipende dal soggetto. In questo caso sto parlando di una foto che non ho scattato io. Ma altri. E che raffigura altre persone (conosciute e non, parenti e non). Oppure luoghi, una luce, uno scorcio. Qualcosa di inusuale, sul quale magari hai gettato un’occhiata distratta tante volte ma che solo l’occhio di chi l’ha scattata,  in quel momento, con quella luce, rende speciale, nuova, ti colpisce.

Ecco, per me la fotografia è innanzitutto dialogo. Può sembrare paradossale: ma come? Da un’immagine statica tu ricavi un dialogo? Si, naturalmente, se questa è capace di lasciare libera la mia fantasia di interpretare il senso. E quasi sempre è cosi. Viviamo di interpretazione e non è affatto detto che un’immagine non sia in rado di suscitarla. Cosa c’e’ da interpretare. Fotografico, fotografa, è un termine che viene usato impropriamente. Come fosse un documento ufficiale. Un qualcosa di incontrovertibile. 

Non è affatto cosi, almeno per me. Anche la più “banale” delle fotografie si incarica di dirmi una montagna di cose. Da un dettaglio puoi percepire tante cose, puoi spingerti ad immaginare, a supporre. Non è l’oggetto in se che è privo di parola. Lo diventa agli occhi di chi non vuole cercarvi un senso.
Tralascio la montagna di sensazioni che ricavo da foto di parenti, amici, gente che non c’è più. L’operazione di aprire l’album fotografico (e da giovane ne scattavo!) la vivo ad intervalli sempre più radi, consapevole che è inevitabile il tasso di malinconia cresca. Adesso c’è l’hard-disk di un computer.

C’è Dropbox (o qualunque altro cloud) che ti permette di condividerla con altri. C’e’ l’immagine sul monitor, che con un colpo di click lascia il posto ad un’altra. Le foto di un viaggio, di una festa, di un figlio: ridotte alla forma liquida, immateriale, scomposte in codice binario, in luogo del vecchio supporto cartaceo, che al virare di colore si incarica di dirci quanto tempo è passato.

Viviamo nella società dell’immagine. Superato lo spaesamento per il passaggio dall’analogico al digitale, la foto acquista nella percezione di ciascuno significati sempre diversi. Voglio pensare ad un futuro nel quale il valore di “documento”, l’accezione corrente di “prova fotografica” venga sempre più abbandonato a favore di un utilizzo sempre diverso, e che si faccia carico di quella cosa impossibile che è aiutare il cervello umano ad elaborare. Un fertilizzante, mica altro.


(*) Monica è Monica Cillario, una fotografa "free-lance" come ama definirsi. Ha un blog, molto bello, che si chiama "faccio tutto bene, domani", e si trova qui.
Collabora, inoltre, con un giornale online dedicato alla fotografia,  si trova qui

la foto in alto è uno screen-shot da un vecchio filmino in super8 girato da mio padre, probabilmente intorno al 1958, all'aeroporto di Mogadiscio.



01/06/13

La grande bellezza, di Paolo Sorrentino.















Anni fa, Elvis Costello pubblicò un cd davvero mirabile, a partire già dal titolo. Si chiamava All this useless beauty. Tutta questa bellezza inutile (o sprecata, che secondo me suona meglio).
E’ il concetto di Bellezza, cosi soggettivo, difficile da omologare senza evitare di contaminarlo con il gusto corrente delle cose, della vita delle persone, delle città, del quale si occupa questa pellicola.

Si lavora per addizione allora. Dove il regista sente il bisogno di un canone, e sceglie la Roma più oleografica, spinta all’estremo da una fotografia che si incarica di stabilirlo questo canone. E all’interno del quale collocare, facendo perno sulla figura di Jep (un performante Servillo) e del microcosmo nel quale si agita, uno dei ritratti più fedeli del "Roman-way-of-life"..

Il film è un omaggio al simbolismo. Come una di quelle cover (passabili) che il solito artista semi affermato prima o poi (a corto di inventiva personale) sente di dover tributare a coloro verso i quali è grato, attribuendogli paternità mai riconosciute, al limite del conflitto edipico. Qui i riferimenti  sono Fellini e Buñuel.
Il primo per esser stato capace di rendere “la dolce vita”, forse Roma stessa,  come meglio non si sarebbe potuto. Il secondo per via di un suo particolare sguardo sulle”virtù” della borghesia e la fin troppo chiara citazione nella scena della giraffa nel teatro di Massenzio e degli aironi sul balcone prospiciente il Colosseo.
Fatta la tara a tutto questo, la Bellezza del film riposa in un uso sapiente (e quasi narrativo) dei primi piani e su alcune, salaci, battute.

Sorrentino è già nell’empireo di certa critica. Gli va dato almeno il merito di provarci. Nessuno, almeno fin qui ha saputo rendere meglio il trash patinato di alcune terrazze romane. Luoghi dove, a dispetto del sol dell’avvenir, si decidono cinquine, si stabiliscono degli eletti, si sussurrano sentenze e infine si fa a gara per sopprimere alla meglio il senso di inutilità del tutto, quasi che le beghe umane piuttosto che diventare il centro del mondo, a petto del continuo (insistito) confronto con quanto di più vicino al canone della bellezza “classica” svelino, in modo potente, tutta la loro inconsistenza. Tutta questa bellezza (tempo, amori, affetti, luoghi) sprecata, appunto, mentre si approssima la morte. 

Da vedere.

Sempre di questo regista, altra “recensione” qui


28/05/13

Un buon modo di fare televisione.



















Azzardo un paragone. Fare buona televisione, giornalismo televisivo, è come saper scrivere bene.
Da qualche settimana il lunedi sera va in onda su Rai3 un programma che si chiama  “I dieci comandamenti”.
Di cosa parla? Non parla. O meglio, parla pochissimo. Lascia soprattutto parlare le immagini, le voci dei protagonisti. Il conduttore (che comunque c’è e si chiama Domenico Iannacone) è discreto. E anche se appare talvolta davanti alla telecamera, è come un buon scrittore: resta alle spalle della scena. Metaforicamente.

I temi: in genere sono scomodi. Ha il pregio di mettere gli occhi lì dove non vogliamo guardare.
Scorsa settimana c’e’ stato un lungo servizio (composto da tanti, piccoli, micro servizi) sulla condizione degli immigrati nelle campagne di Rosarno, in Calabria. Ieri sera ha riportato a galla (con tempismo davvero macabro) la storia di una ragazzina barese (Palmina Martinelli credo si chiamasse) che fu arsa viva anche lei come la povera sedicenne calabrese di qualche giorno fa.

Sono storie “dure”. Ma necessarie. Nessuno è obbligato a vederle, divertendosi come meglio crede con i soliti teatrini dei talk-show politici che, almeno ai miei occhi, hanno fatto il loro tempo, esaurendo qualsiasi tipo di interesse. Ma è questa la televisione che apprezzo.  Camera in spalla,  commento scarno o quasi del tutto assente, e grande protagonista l’immagine, la voce dei protagonisti, le storie.

C’era Goffredo Parise che scrisse un reportage su un suo viaggio in Africa (Congo, credo di ricordare). Anche lì, grande capacità di “rendere”. Prosa asciutta, scriveva per immagini. Senza compiacimenti o auto-indulgenze.

Una dote, considero questa, rara nel panorama del giornalismo italiano.

15/05/13

ONDE ROD, il film di Mario Pischedda













Itaca, o il ritorno.
Ho appena finito di vedere (si, non ce l’ho fatta, l’ho dovuto vedere, intanto da solo) ONDE ROD, il lungometraggio di Mario Pischedda.
La tenerezza, del temporale finale. Una poetica liquida, come quella della Pioggia, che spazza via tutto.
Girato a bordo di auto che solcano le strade della Sardegna. Un docufilm? Non proprio. L’estrema varietà delle presenze, i dialoghi (spesso monologhi) di tante persone chiuse in un microcosmo con le ruote.
Non è Cortazar, nemmeno Eisenstein. E’ altro. 

Un sovrapporsi affastellato di voci, spezzoni, inquadrature.
E’ il fluire della vita, ciascuno con la lettura che dà di essa. Tutte perfettamente decorose. Ciascuna tendente alla verità che tutti abbraccia e consola. La terra di Sardegna. Certi suoi scorci lunari. Dove anche tracce della contaminante “modernità” proprio non ce la fanno ad omologare un paesaggio, che rimane a sé, restio a farsi omologare, compiaciuto della sua asprezza. ONDE ROD è questo. E’ una lacrima che sta per uscirti sul volto di una donna bellissima e silente, che va incontro alla notte. E’, per dirla in altre parole, poesia. Poesia dell’immagine. E di questo nostro tempo, a volte così triste. 

C’è una sequenza bellissima verso il finale. C’è un gran temporale, i fari che illuminano una strada (lo percepiamo dai catarifrangenti ai bordi) e dai “frattali” che la pioggia disegna sul parabrezza che avanza, con pigrizia rara). Un novello Ulisse, per chilometri, al buio, illuminati solo dai fari dell’auto, con la musica ipnotica di Fresu di sottofondo.  Alla fine di una serie di curve, il bagliore. Una luce-Penelope che si staglia davanti agli occhi, con autorità, mettendo per un attimo il buio in castigo. Itaca a portar via, il viaggio, il ritorno. 

E’ bello questo film di Mario. E’ da vedere. E da lasciar decantare.
Come un buon vino, ha bisogno di aria.
Regaliamogliela, facciamolo girare.
Grazie Mario, di cuore.


12/05/13

In un certo senso, (6 atti tratti dai racconti di Raymond Carver)




















E’ che uno non sa mai cosa fare, nei weekend. Cosi, basta una segnalazione in uno di quei siti che elencano gli eventi per la serata a Roma, per decidere di andare. La parola chiave è CARVER. Bene, si  va.

Il Teatro delle Maschere è su una parallela di Viale Trastevere, tratto fra via Nievo e il ministero della Pubblica Istruzione. Si entra, si stacca il biglietto. Comincia: si alza il palcoscenico.
Sei scene. Sei atti dai titoli tratti dagli omonimi racconti di Raymond Carver.
Gli attori? Allievi di una scuola di recitazione, ma non fa niente.
Davanti ad alcune titubanze, recitazioni cui va fatta la tara di quanto detto sopra (allievi) è l’insieme che risulta gradevole, per la capacità (della scenografia, delle musiche, infine dell’atmosfera) che il tutto riesce a far arrivare.

Fra il primo e il secondo tempo, qualche anziano guadagna silenzioso l’uscita (forse si aspettavano altro).
Cosa c’e’ di buono? Che queste contaminazioni mi mandano ai matti. Cosi come (ne ho scritto qui) anni fa andai a vedere uno spettacolo di danza creato sulle musiche di Frank Zappa, anche stavolta ricordare i racconti che lessi (prima che diventasse un mito) di Carver riproposti in chiave teatrale, beh, è uno zuccherino.

I dialoghi, la forza dei dialoghi che era già degna di nota in forma scritta, si ripete anche nella recitazione, laddove solo la parziale inesperienza degli attori, in termini di mancata spigliatezza, non riesce tuttavia a fargli perdere l’efficacia. E’ il mondo di Carver rivive, stavolta privo dei suoi ipnotici “disse”.
Meraviglioso, su tutti, vedere il gioco di Cattedrale, contatto fra due mani che disegnano, quella di un cieco sul dorso di quella di uno che tenta, attraverso il tratto, di spiegargli come è fatta, che forma ha, una Cattedrale (sul quale si sono riversati fiumi di inchiostro) riproposto dagli attori con una naturalezza che lascia senza fiato e coinvolge il pubblico più smaliziato.

Ho assistito allo spettacolo in compagnia di una persona che non aveva mai letto nulla di Carver. Al termine, mi ha confermato di aver percepito l’humus dei suoi micro mondi. La forza irresistibile di un “cambiamento” di un’epifania (come la chiamano i più dotti) che scaturisce sempre. Anche nelle situazione più statiche, come nella vita. Che poi è quella cosa, della quale nell’arte di raccontarla anche partendo dalle sue pieghe più banali, Carver è stato maestro indiscusso.
Bello.

qui "more info about" : 

07/05/13

06/05/13

Onde rod (Mario Pischedda)













Mario Pischedda è una miniera da scoprire.
Adesso sta per rilasciare un film. Un cortometraggio, come ama chiamarlo lui.
La fruizione. Una volta che l’opera è compiuta bisogna divulgarla. E qui, per chi parte nell’ottica del totale fai da te diventano problemi. 

Come acquisire visibilità? La tv, certo, ma o vai in qualche rete nazionale (magari infilato in qualche programma di culto che passa a orari impossibili) neanche è detto.
E poi, la dovuta concentrazione. Vuoi mettere? La tv è dispersiva. Certo lo è anche il web. Ma al momento è l’unica strada per consentire visibilità. Questa può essere accentuata se del corto se ne parla, sui social-media, nei blog. Riserva indiana? Spazio per addetti ai lavori? Forse.
In ogni caso, in Italia manca una piattaforma. O hai una barca di soldi e ti auto-promuovi. Penso ad un accordo con le maggiori sale cinematografiche (sarebbe un buon modo anche per riportare gente nelle sale). Ti faccio vedere un corto prima della proiezione del film per il quale hai pagato il biglietto.

Consorterie, regole bizantine. Siamo un paese da prendere a modello (Gabanelli docet) quanto ad arretratezza, ostacoli, burocrazia per impedire che nasca qualcosa di nuovo.
Non credo sia il coro dell’invidioso. “Bucare” a volte è questione di culo. Non si entra facilmente nell’empireo degli amici degli amici. Se si viene cooptati spesso lo si è in forza di conoscenze (ah, il duro potere discrezionale duro a morire…). La qualità in tal modo viene soppressa in favore di non meglio precisate marchette. Ti pubblico perché sei cosi, sei cola, conosci Tizio, conosci Caio.
Invece, a me piacerebbe un altro mondo. Un mondo nel quale la competizione per emergere faccia perno sulla qualità. E non mi sembra sia questo il momento, ancorché evocato (dal vento grillesco).
Allora? Allora rimboccarsi le maniche, aiutarsi fra sodali, senza nulla avere in cambio se non il piacere di condividere una cosa che ci è piaciuta. E molto.
Grazie Mario Pischedda!
Tanta fortuna.

qui un breve filmato:  http://youtu.be/YIEuI8QBWto



05/05/13

Viaggio sola, di Maria Sole Tognazzi















Ogni tanto vado volentieri a vedere dei film di registi italiani. Mi piace vedere “lo stato dell’arte”.
Cosi, staccato il biglietto, stasera, per assistere alla proiezione.
Il film ha un buon cast. La Buy, si può dire, lo regge quasi da sola. Accursi, le fa quasi da comprimario.
Ma il pregio è della sceneggiatura. E’ una storia che si presta a tanti sottotesti. O almeno, al di là di una lettura limitata al soggetto, può rivelare diverse chiavi di lettura.

Intanto, non so se è una moda importata, ma la narrazione si svolge per pennellate aggiuntive. Nel senso che il montaggio ha il pregio di far scorrere (con quale indulgenza alla fotografia oleografica che nell’economia del film si rivela irrilevante) la pellicola senza pause auto indulgenti, e con un buon ritmo.
E’ sostanzialmente la storia di una solitudine consapevole. La maturità di una donna che sceglie, invece di essere scelta, ostaggio di una professione apparentemente ambita ma che per bocca della sorella della protagonista “la fa guadagnare come un’impiegata”. No, non è per quello che la nostra sale e scende continuamente da aerei, alberghi a cinque stelle, splendide città europee, africane e orientali.

E’ il parallelo fra la vita, apparentemente noiosa, della protagonista e quella votata alla routine della sorella: un marito in preda al classico calo del desiderio, dei figli ancora piccoli, un lavoro e la gestione di una casa.
Una casa la nostra non ce l’ha. O se ce l’ha, si rapporta con ironia anche con essa. Cosi come fa nei questionari che compila, facendo come lavoro l’ispettrice di qualità in incognito. “Si è trovata a suo agio in questo ambiente?” sentiamo chiedersi, con intento evidentemente ironico.
Due modi di intendere la vita. La Buy, che vorremmo felice di questo lavoro che la vede ospite di lussuose location, e la vita “normale” di sua sorella.

Il film offre spunti interessanti, come quando, in un hotel di Berlino, la Buy stringe amicizia, in un bagno turco, con un’anziana sessuologa, lì per presentare un libro. La donna le offre una definizione del lusso: “lo vede? Guardi con i suoi occhi”, le dice, “non le sembra che tutto questo lusso faccia sentire gli ospiti come in un palcoscenico?”.  E ancora, la Buy stessa, che parlando ad un suo ex (Accursi) che la va a trovare “sul lavoro” getta un’interessante riflessione circa il gioco della falsa identità che è chiamata per lavoro (ma infondo, non solo) a sostenere.

Un’elegia della fuga, confermata da una battuta finale, con la quale finge al telefono con la sorella, di voler mollare tutto per dedicarsi al volontariato in una scuola in Tanzania, per aiutare i bambini poveri.

“La morale, Benigni, la morale”, incalzava un giovane Arbore ai tempi de l’altra domenica, il Roberto nazionale nei panni di un improbabile critico cinematografico militante. La morale è che si tratta di un film che sebbene girato da una figlia d’arte (Maria Sole Tognazzi), si lascia apprezzare per il ritmo, per il coraggio di vivere la solitudine, anche a costo di inevitabili malinconie (il rapporto conflittuale con l’ex che intanto aspetta un figlio da un’altra donna, o con la sorella perfettamente integrata nella nevrosi della casalinga) decide di viversi comunque la sua diversità, accettando il prezzo di non poter avere una famiglia.

Ho visto di peggio.

01/04/13

Times Square Cam - EarthCam















Non so fare l'embedded. O magari non esiste proprio come opzione.
In ogni caso, mi piace ogni tanto aprire questa pagina Times Square Cam - EarthCam, e mettermi a guardare la gente che passa sotto la web-cam piazzata in Times Square, a Manhattan.
Cosa ci provo ? Mi distende.

Intanto la magia del fuso orario. Sapere che si tratta più o meno dello stesso "attimo", un presente leggermente sfalsato solo dalla larghezza della banda adsl, e che come dalla finestra di un palazzo che affaccia sulla piazza del paese ti puoi fare i fatti degli altri senza pensare.

Oppure no. Come qualcuno credo abbia anche fatto, al solo partire da una fotografia. Provare ad immaginare dalla frequenza di un passo (qui c'è l'animazione, lo puoi vedere mentre cammina, come cammina), percepire quanta fretta ha, ipotizzare dove stia andando, o magari dal suo abbigliamento provare ad immaginare che vita faccia, di cosa si occupi, mentre transita, inconsapevole, sotto la vigile telecamera piazzata chissà dove fra un megaschermo e l'altro che arredano le facciate dei grattacieli che circondano la piazza.

Un ozio, nient'altro. In silenzio. Che rende il tutto ancora più irreale, è come sedersi, armato di pop-corn, davanti ad un mega acquario.


24/03/13

Perché si continua a parlare di Frank Zappa.
















Meglio: perché,  dopo 20 anni dalla sua scomparsa, si moltiplica l’interesse su di lui ?
Probabilmente perché, come certe medicine, il suo effetto è “a lento rilascio”. Zappa ha curiosamente catturato l’attenzione di persone (come mia figlia che è nata un anno dopo la sua morte) che non avendolo conosciuto in vita, ne sono rimaste attratte indipendentemente dal fatto che fosse vivo o meno.
Purtroppo non ha più composto. Eppure, anche depurando l’ansia pubblicatoria degli eredi, già basterebbe la sconfinata discografia che ci ha lasciato (e che vedi bene, proprio recentemente è stata rimasterizzata completamente in un’edizione cofanetto di ben 10 cd).

Facebook è considerata una gran perdita di tempo. E’ vero. Spesso ciò che vi si aggira serve unicamente a riempire in modo insulso, ore di tempo dedicate al tedio. Eppure, talvolta, basta un link, confuso fra le centinaia di roba pressoché inutile, per rivalutare il mezzo. Se non altro, come scambio di informazioni.
Cosi, oggi pomeriggio da un anonimo link a Youtube, è uscita questa roba qua.
Due ex membri del gruppo storico (The mothers of invention) insieme con una folta selezione di allievi musicisti di una fantomatica NTU (prima che il provvidenziale google non mi spiegasse che trattasi di universitari della North Texas University) hanno messo insieme un concerto della durata di poco più di un’ora.
Calzate le cuffie (il video, per fortuna, è in HD), mi sono disposto sul divano e ho dovutamente selezionato il volume al massimo.
Beh. Un’ora di godimento assoluto. Quando sento Zappa, anche bene suonato da terzi, mi commuovo.
La freschezza, forse, il vedere questi ragazzi dannarsi l’anima (non so quanto abbiano provato) eseguire quasi in maniera pedissequa i suoi brani, con una scaletta originale che denota ottima scelta non disdegnando anche quelli di più difficile esecuzione, è cosa che da il metro dell’universalità, e insieme della attualità della sua musica.
La cifra di Zappa è stata quella di non aver avuto modelli cui rifarsi. Forse l’esatto contrario. Pallidi tentativi di imitazione qua e là (vero Elio ?). Ma è sempre l’originale ad avere la meglio.
Ho ringraziato l’amico di facebook che ha condiviso questa meraviglia.  E insieme, mi è tornata in mente questa storia.

Tanti anni fa, estate romana. Rassegna di balletto. Io sto al balletto come Totti al “punto croce”. In una location incantevole (sede guarda caso dell’accademia di Germania) c’è uno spettacolo incentrato sulle musiche di Zappa, Fountain of love. Vado, come sbagliarsi. E’ sera, è estate, fa caldo, lo spettacolo è all’aperto. Un palco frugale, ma luci di scena fanno quello che devono e il vedere ballerini danzare sulle musiche originali (che poi, da vero pervertito, ricostruii in una audiocassetta rispettandone la scaletta). Da sballo. Il coreografo un regista catalano  Cescgelabert, e il corpo di ballo chiamato Balletto di Toscana…(“mica vero, ci sono anche siciliani” mi disse uno degli artisti quando, a spettacolo finito, mi spinsi nel backstage per i doverosi complimenti).

All’uscita mi imbatto in un collega. Dopo le consuete frasi di rito…Che ci fai qui ?  Ho un mio amico che lavora nel corpo di ballo. Tenni a mente quella informazione. Tempo dopo, rincontrandolo presso un cliente tornai a quella sera. Gli chiesi se e come potevo entrare in possesso (posto che esistesse) di un DVD di quello spettacolo. In breve, mi fornii il numero del suo amico, il quale mi diede i contatti per ordinare il DVD direttamente a Firenze, presso la sede del Balletto. La qualità non è un granchè…ma l’emozione di rivedere danzare in maniera splendida sulle sue musiche, ancora oggi, non ha eguali.
Stasera, mentre guardavo avidamente da Youtube la fatica di questi giovani universitari texani è stato inevitabile riandare a quel Balletto.
Molto bella, umoristica e dissacratoria la battuta finale del bassista-presentatore del concerto…Verso la fine, dopo le doverose presentazioni (hanno tutti l’aria di chi si è divertito come un matto): “Goodnight Frank Zappa, wherever you are”.


Per saperne di più:

20/03/13

Smau, Roma.













In forza non so bene di quale sottoscrizione a quale sito mi arriva giorni fa l’invito “VIP” per visitare l’edizione romana dello Smau (acronimo di Salone Macchine e Attrezzature per l'Ufficio).
Avevo intenzione di  seguire un paio di seminari gratuiti sull’iterazione fra web e comunicazione.

Arrivo e tanto per cambiare la segnaletica per il fantomatico “parcheggio VIP” ha la stessa precisione dei recenti exitpoll.  Dopo aver girato un bel  po’ sotto la pioggia, trovo un posto non segnalato dalle striscie, perché mi sono già stancato, e cedo per rassegnazione a trovarmi all’uscita l’immancabile contravvenzione di quel esempio di zelo che sono i vigili urbani del comune di Fiumicino (che per dimestichezza con l’arte di rimpinguare le casse comunali meriterebbero, con titoli, di poter ambire alla poltrona di Via XX Settembre).
Entro, dopo aver percorso un cinquecento metri sotto una pioggia che tuttavia ha il potere di non indispormi del tutto. Cammino lungo il corridoio centrale non mancando di osservarne l’abbandono.

Un alone di tristezza che, sarà il tempo, sarà la giornata, sta lì a ricordarti che ti trovi nell’ennesima opera dell’affarismo romano: una cattedrale nel deserto che torna a vivere, per lo spazio di pochi giorni, di volta in volta per la sagra della porchetta, per una sedicente fiera dell’edilizia e amenità varie.
Mi inoltro nell’unico padiglione che ospita la manifestazione di quest’anno. Siamo in crisi. Gli espositori liquefatti, molti gli spazi vuoti. Cerco sulla cartina le “arene” (piccoli spazi vuoti ricavati fra gli stand) nelle quali si tengono i seminari che mi interessano. Con la mia proverbiale dimestichezza, come un mister Magoo qualsiasi mi fermo all’esterno di una di queste arene. 

La pischella al banco mi bracca con una pistola laser in mano, ansiosa di leggere il codice a barre sul retro del cartellino che mi hanno messo, come ogni bravo congressista che si conviene. Dopo una manciata di minuti, verifico con la piantina che non è quella l’arena che mi interessa. Stanno parlando di windows 8, è gente Microsoft. Ho confuso le arene. 
Cosi arrivo a quella alla quale volevo assistere, che è già cominciata da un pezzo. Ovviamente in piedi, ovviamente da molto lontano, distinguendo appena quanto, da un microfono caritatevole, il conduttore sta appena dicendo.
Da li a poco termina. Mi rimetto in moto. Prima passo al bar, pago per un panino (di silicone) e una cocacola 7,50 euro,  (niente in confronto ai prezzi della Fiera di Bologna). Rifocillato, riprendo il giro fra gli stand. Solita fauna. Gente in giacca e cravatta, COCOCO; standisti, venditori che sembrano usciti (scartati) da un casting per un remake di The big Kahuna.  Volti tristi di belle figliole che compulsano i rispettivi smartphone dietro banchi di stand nei quali l’ultimo visitatore sembra essere passato mesi fa: gridano desolazione.

Quasi per sincronicità squilla il telefonino. Anzi vibra, giacchè è d’uopo metterlo in silenzioso per non disturbare il relatore (preoccupazione soverchia: come detto la distanza fra me e i vari relatori è prossima a quella fra noi e la cometa di Halley, tanti gli spettatori in piedi che affollano per altri metri gli stantii perimetri delle “arene”. Un collega che non sento da anni. Mi chiede se posso segnalargli una ditta per dei lavori di manutenzione per un lavoro fatto almeno un paio di decenni fa. Simpaticamente ha anche lui (siamo rimasti in pochi, in Italia) a disporre di un numero che inizia per 337. Scherziamo pensando che a breve verremo contattati dal WWF per sottoporci ad adeguata tutela. Parliamo, è mio coetaneo. Ne ha piene le palle anche lui. Mi dice che sono giorni che il telefono non squilla, mi svela il proposito di raggiungere un figlio (che provvidenzialmente ha sposato una ragazza australiana) per fare qualcosa in Australia. E’ tutto cosi decadente.

Vedere queste Aziende, queste persone, aggirarsi frenetici ma leggere, inconfessata, la domanda inespressa di un po’ tutti: “che cazzo ci stiamo a fare, qui ?”.
Allora non sai come interpretare, il voler essere venuto. Aggrapparsi, contro ogni ragionevole dubbio, alla speranza che la locomotiva Italia prima o poi riparta (carbone o non carbone), o adagiarsi in questo torpore malcelato da un attivismo che sa di forza di inerzia. Non so se ho reso. Restare sospesi fra queste due interpretazioni. Avendo, in ogni caso, la certezza che non dipenda da nessuno dei presenti. Ma con diverse sfumature sulla scala dell’io speriamo che me la cavo (gli ostinati) e il “basta che se magna” (i pragmatici, immarcescibili, romani).

Assisto ad un paio di altri seminari. Uno è cosi istituzionale (taccio per carità di patria il nome dell’Azienda) che persino i conduttori sembrano imbarazzati (e in questo senso fantastico circa il senso della realtà di coloro che l’hanno partorito, dai loro comodi e parassitari posti di lavoro felpati e arredati all’ultima moda).

Suona tutto falso. E nessuno ha il coraggio di ammetterlo. Metti che poi arriva davvero, ‘sta ripresa ?

02/02/13

Ciao Zeman, e grazie per tutto il pesce















(dedicato a Lui e ai piacitori della pagina Kansas city 1927 di Facebook)

Succede.
Succede che a volte non va come vorresti che andasse.
Cosi, un uomo di nome Zeman, viene chiamato a dirigere una squadra appena abbandonata dopo un anno da un tecnico (ben prima di Monti) asturiano stavolta. Arriva “il Boemo” per eccellenza. Sir Zeman, il profeta del calcio pulito. Del calcio spettacolo.

E’ estate ed è noto, in quella stagione, tutto è lecito azzardare, pensare, sognare.
Il nostro arriva in una società gestita da danarosi americani che tutto sanno tranne che di calcio. Saranno bravissimi con altre cose, tant’è che si sostiene abbiano una montagna di soldi.
Arriva il Boemo, e tutta l’estate è un fiorire di commenti entusiastici della stampa “specializzata”…si fanno pronostici, si applaude alla campagna acquisti. Tanti giovani, alcuni talenti già affermati, altri di sicuro avvenire. La società è gestita dagli stessi manager che l’anno prima hanno portato a Roma l’homme vertical, lui se ne è andato. Loro (Baldini e Sabatini) no.

Ora, chi scrive non è un addetto ai lavori. Sono ancora attaccato ai valori di un calcio che definirei “romantico”, facile scatti l’empatia per questo burbero signore, vagamente celebrato da tutta un’editoria che si prodiga in istant-book, che macina (o tenta di macinare) profitti alle sue spalle.
Arriva il nostro e subito un rinfocolare la leggenda. I gradoni, i duri, estenuanti allenamenti coi quali forgiare i giovani muscoli al suo tipo di gioco: tutta velocità e chilometri e chilometri sul campo. Fiato gambe e testa. Schemi che sconvolgono ed abbagliano, quando per porzioni di partita su questo o quel campo di calcio italiano, la Roma si sia trovata a giocare e che non possono, non debbono, sfuggire all’ammirazione del più smaliziato intenditor di calcio, quale che sia la squadra per la quale egli tifa.
Zeman è questo: sacrificio e sudore. Ma ti ripaga, per quei momenti, brevi o lunghi che siano, contro questa o quella squadra, vuoi di cartello che la meno blasonata di provincia.
Il caso vuole che a siffatti ordinamenti taluno non si sia abituato. Logica vuole che l’allenatore sia il timoniere, colui che ha in capo la responsabilità delle scelte. E’ lui che fa la formazione, non la piazza, non le radio, non tutto quel circo mediatico che alle sue spalle vive e lucra. Ma a Roma no.

Roma è una piazza difficile, chiosano tutti. Anche l’ultimo dei commentatori (tv o stampa che sia) ha imparato questa giaculatoria. E’ vero. Tifoseria attaccata alla maglia come poche. Però anche uno spogliatoio, una serie di giocatori ai quali il nostro indirizza il più sintetico e logico dei giudizi: “chi non si allena bene non lo chiamo”. Via cosi i De Rossi, e gli Osvaldo. Il primo, forte di un papà nella dirigenza della società, anche  bene del settore Primavera, si vede attaccato da una sorta di “lesa maestà”. E via con la fronda. Va in Nazionale, bontà sua segna, insieme all’italo-argentino, e giù la stampa a seminar zizzania…”ma come, questi li lasci in panchina poi vengono qui, in azzurro, e fanno cose strabilianti ?”. Tutti a dar giudizi, la strada del Boemo è segnata. Lui sembra non curarsene, fedele al personaggio: tira dritto per la sua strada, continuando ad alternare risultati a sorpresa. In breve la Roma ha il miglior attacco del campionato (il più prolifico, almeno, visto il numero dei gol segnati) ma altresì la peggior difesa (maggior numero di reti subite). Anche un cretino capirebbe che a tanta mole di gioco (chi ha contato i gol “mangiati” fin qui della squadra ?) non risponde una difesa degna di questo nome. Da anni tallone d’Achille della squadra, quale ne sia l’allenatore.

La difesa fa acqua. Inutile qui dilungarsi sulle colpe. Salvo la  sorpresa di Marquinhos, una timida rivalutazione di Piris, il lungo infortunio di Burdisso che ce lo riconsegna irriconoscibile se non a tratti. Troppo poco. Aggiungiamo la nota dolente dell’estremo difensore. Colui che ha il compito di sostare fra i pali. Qui si consuma il carosello. Parte titolare l’olandese dal cognome subito contratto in slang “Stek”…(che elemburg già so’arrivato sul raccordo…), per poi cedere il passo al rumeno Lobont (senza infamia e senza lode) infine per approdare all’acquisto estivo Goicoechea (del quale si favoleggia la “bravura coi piedi” quasi fosse un plus di cui andare fieri, al cospetto dei dettami di gioco del Boemo).

La colpa non è dei portieri. Questi ultimi possono poco se una difesa tenuta ostinatamente alta prevede in luogo di tanti piccoli Mennea (per restare ad un esempio italiano) timide comparse di ciò che dovrebbe essere un terzino moderno. Trovarsi soli davanti ad un avversario che ti arriva a cento all’ora non è colpa tua: è segno che qualcuno non ha fatto argine come doveva. Punto. Aggiungiamo che le papere sono figlie dell’insicurezza comminata a piene mani da un combinato disposto fra una supposta Dirigenza e un Allenatore pervicacemente convinto della giustezza dei propri schemi.

Vogliamo dare ragione agli schemi del Boemo. Diamo per buono che siano essi validi e capaci di dimostrare un calcio diverso, meno noioso e catenacciaro di quello cui ci hanno abituato secoli di trainer venuti su alla scuola del “primo non prenderne”. Perfetto. In questo caso una Dirigenza degna di questo nome, forte della supposta capacità economica della Proprietà, si mette sul mercato e sceglie gli interpreti migliori per questo tipo di gioco. Hanno sbagliato in estate ? Ci sono gli esami di riparazione in gennaio. A gennaio è stato acquistato un solo altro giocatore, greco (tanto per restare in tema di tragedia) che abbiamo visto giocare per uno scorcio di gara, peraltro insufficiente a giudicarlo appieno, proprio la scorsa domenica in quel di Bologna. E gli altri ?  Quale che sia la motivazione addotta dal tecnico, una dirigenza degna di questo nome, chiama la Proprietà, rappresenta le difficoltà (leggi: facendosi aiutare da un valido traduttore) ma fa in modo e maniera di spiegare che se non si trovano gli interpreti adatti a tale tipo di gioco, difficile si possano raggiungere dei risultati. Invece niente.

Infine, la “peggiore settimana della mia vita”. Sabato scorso, a ciel sereno il Boemo sbotta…”in società non ci sono regole”. Messaggio in chiaro please. Che vuol dire ? Con chi ce l’ha ? Coi giocatori ? Con i Dirigenti ?
Forse con quest’ultimi. Ammettiamo fossero loro i destinatari della bordata. La partita di Bologna, quasi con noia ripropone lo stesso schema: un film già visto, attacco prolifico, spettacolare, quanto inconcludente, difesa che si apre come una margarina lasciata per distrazione vicino ad un fornello acceso.
Lunedi prende la parola Sabatini. Tuona che il tecnico ha osato criticare la società. Mica si fa un esame di coscienza. Mica si chiede della validità dei suoi acquisti. Mica si interroga se si è dialettizzato bene col Boemo. Niente di tutto questo. Zeman è ufficialmente sulla graticola, Esposto al pubblico ludibrio. La Società (o meglio, il sig. Baldini e il sig. Sabatini) badano sostanzialmente a pararsi reciprocamente il culo, ignari del secondo flop (la scelta del trainer) in poco meno di due anni. Salvo poi alla vigilia dell’incontro in casa col Cagliari finire a tarallucci e vino, come niente fosse accaduto.

Siamo a ieri sera (e dire volevo andare allo Stadio). A petto di un primo tempo “decente” (anche se in avvio preso il solito gol per dormita collettiva della difesa) si riagguanta il pareggio grazie a San Capitan Totti, che a dispetto dell’età, dei miti cresciuti in questi ultimi tempi è l’unico, dall’alto dei suoi 36 anni ad uscire dal campo guadagnandosi la pagnotta e inseguendo quel miraggio che ha ogni giocatore in attività nel nostro campionato: quello di raggiungere quota 274, ad opera di Piola Silvio, vatti a ricordare in che anni.

Morale.
Volti terrei, facce da circostanza, la sua no, è la stessa. La tenerezza del mister nelle interviste del dopo partita col suo desiderio di restare altri cinque anni, la polpetta avvelenata, la testa che la piazza richiede (ma quale ? Quella di quattro scemi dietro ad uno striscione? Quella delle radio che campano incassando pubblicità per raccogliere la solitudine dei numeri primi: di quelle migliaia di romani attaccati alla maglia più e come di una ventosa su di un vetro). No, il culo al caldo dei due signori in parola (perché non definirli geni a sto punto?) è garantito. Che a pagare sia il profeta. Che se ne vada. Che noi restiamo al nostro posto, capaci di chissà quale altra stronzata, con buona pace dei dollari che i danarosi americani si apprestano ad investire per il nuovo stadio e in un delirio di merchandising mondiale).

Una triste parentesi. Dalla quale non esce bene nessuno. I giocatori, d’accordo, molti dei quali per limiti non a loro imputabili, sebbene a chi li ha scelti. Zeman stesso, incapace in un ambiente come quello romano di saper dare la guazza, ma troppo fedele a se stesso ai limiti dell’autismo, sordo fino all’ostinazione difronte agli evidenti squilibri che la squadra ha denotato. E infine a loro, a questa coppia di sciagurati che sapranno per carità fare il loro lavoro, ma di motivazione e tempismo ci capiscono quanto Fantozzi di biologia molecolare. Che vadano a casa, si. Anche loro.
E’ ingiusto che a pagare sia solo il Mister.

E che si riapra infine, dopo un doveroso repulisti: via primedonne, fuori chi non lotta, una nuova stagione, dei nuovi successi all’altezza dell’affetto che la tifoseria tutta dimostra per questi colori.
Ciao Zeman,
mi mancherai.