25/10/10

Burlesque al Procasma

Flamenco visto da Botero







Intanto ti becchi una bella denuncia...stronzo ! Poi lo vediamo se il tuo intento era o non era quello di tirare in ballo una Onorevole della Repubblica.

Capto questo dialogo dal viva voce dell'auto (una banale BMW x5, color aragosta) di Steve Bishop.
Sali, ti do un passaggio, mi aveva detto poco prima, scostando gli occhiali con la montatura in tinta con la carrozzeria. Immaginate un nano, da circo, al volante di un auto cosi: due cuscini ricamati all'uncinetto sotto il culo, pena il doversi far raccontare cosa c'è al di la del parabrezza.
Per quanto elettronicamente assistita da ogni sorta di diavoleria telematica, l'auto se il conducente non arriva almeno a vedere la strada di la dal cruscotto, non è un romanzo: mica te la possono raccontare. E visti i tempi di reazione di Steve, roba da scegliere di andare in taxi tutta la vita.

Sto per invitarti ad un evento straordinario. Il Procasma ospiterà il primo Festival del Burlesque della capitale. Mai, fino ad ora, si era visto qualcosa di simile. Inoltre sto preparando delle sorprese per i nostri ospiti. A breve partiranno dei corsi, ogni casalinga disamorata potrà, finalmente, appropriarsi delle sofisticate tecniche del Burlesque per riproporle all'interno del proprio bisunto menage.

Bisunto, si. Proprio cosi ha detto. Poi a casa mi sono collegato sul sito di un dizionario online e ho trovato questa definizione, testuale: Come prefisso, "bis-" o "bi-" può indicare: ripetizione, accrescimento_:vedi "bis-unto(= molto unto).

Ora, l'impiego di questo aggettivo, in faccende riguardanti il sesso per la mia limitata cultura ha dei rimandi significativi nella celebre pellicola ambientata a Parigi e che aveva a che fare, già dal titolo (e non ho mai capito bene perchè) con un celebre ballo argentino. Bisunto mi coglieva proprio impreparato, ma da Steve ci stava, perdonando il bisticcio.

Cosi, alla serata convenuta, convoco il solito taxi mediante il 3570. Una voce dal forte accento est europeo mi rassicura sul fatto che a breve, Lampedusa 51 avrebbe dovuto citofonarmi per portarmi al Proscama. Cosi è stato. Con puntualità elvetica citofona, scendo. Ad attendermi un cingalese, in la con gli anni. Ecco l'effetto delle mancate riforme sulle pensioni, mi dico, mentre prendo posto, richiudendo l'ombrello per evitare di bagnarmi.
L'autista ha una guida, a dispetto dell'età, molto speed. Con grazia consumata si dilegua fra sensi unici, corsie preferenziali e chachacha. Mentre guida, dalla sua radio, escono musiche di Bollywood, e io mi interrogo su cosa ne sarà di questa nazione fra dieci anni, Marchionne permettendo. Fuori, intanto, continua a piovere.

Arriviamo davanti al Proscama. Il frontespizio del locale ospita una scritta a caratteri cubitali che certo non farà la gioia di chi abita al primo piano e ha deboli problemi di insonnia. La scena è illuminata a giorno come nemmeno quelle di una troupe intenta a girare qualche spot, dentro la caverna di turno. Ad attendermi, in livrea, l'energumeno dalla voce flatuata, come quella di Audrey Hepburn, che per sua stessa ammissione, costituisce un faro ineliminabile, nella prospettiva della sua crescita. A tutti è dato il diritto di sognare, penso, mentre mi faccio accompagnare i pochi passi che separano il taxi, dall'ingresso Enel del Procasma.

Una buonaserata Signore, mi dice mettendo in tasca la mancia d'ordinanza che lascio discretamente scivolargli fra le mani, mentre mi chiude l'ombrello. Entro e superate la tende pesantissime (con funzioni fono assorbenti, mi ha spiegato una volta Bishop, ma sulle quali nutro pesanti dubbi circa il comportamento al fuoco) scendo i gradini che conducono alle sale. Un gran luccichio di paillettes, piume di struzzo e serpenti boa a circondare delle spalle esili o degne di qualche lanciatrice del peso ucraina. L'effetto è straniante. Mai vista tanta gente. Tutti con un flut in mano, bollicine e risate, come è nello stile del locale. Quasi sepolto da questo festival da magazzino costumi, degno di Cinecittà, facendosi largo a forza, fendendo capannelli intenti a commentare l'avvenenza dei costumi altrui, Steve riesce ad avvicinarsi per porgermi il benvenuto.
Vieni Cletus, qui starai bene stasera. Guarda quanta gnocca, mi sussurra. Steve è gay, chiaro che sottenda alla mia, di felicità. Cosi, fra matrone della media borghesia, cafonazze arricchite e mal smaltate, gente di tutte le salse, e una cospicua presenza di femmine giovani e sorridenti, mi fa strada fino al banco dei cocktail. Prendi, e mi porge una coppa con della roba che fa le bollicine. Stasera abbiamo fatto il pieno, mi dice trionfante, non pensavo il Burlesque attirasse tanto.

Sul palco un'orchestrina vestita con abiti New Orleans, fra i volti dei quali non faccio fatica a scorgere quelli di diversi post telegrafonici soliti frequentare il locale anche per altri avvenimenti. Suonerebbero neanche male, se in mezzo a tanto frastuono, bizzarria del banco mixer del DJ del locale, non uscissero in sincrono le previsioni del tempo, recitate da Paolo Sottocorona, famoso meteo-man di una rete televisiva nazionale, di due settimane fa. Il pubblico non ascolta ne l'une ne l'altre. Il tasso etilico è elevato, le risate, ora isteriche e di circostanza, ora sentite e fragorose riempiono la sala. La temperatura sta salendo.

Bishop sbuca sul palco con la grazia della prima neve, ad ottobre, sul tratto dell'A1 fra Roncobilaccio e Barberino del Mugello. Deve fare ricorso a tutta la sua energia per ottenere l'attenzione del grazioso pubblico. Senza successo. Ad un cenno, imperioso, della sua mano, che non evita di mettere in mostra dei polsini probabilmente comprati su Ebay, le luci si spengono, le voci si ammutoliscono, e un'occhio di bue lo illimina in tutto il fulgore del suo metro e cinquantatre.
Signori benvenuti, dice commosso. Lo conosco, quando è cosi raggiante prefigura quel senso di intima soddisfazione che accompagna il pagamento di pesanti rate di mutuo che continua ad accollarsi con graziosa eleganza, a dispetto dei suoi noti problemi finanziari.
Non avete mai visto nulla del genere, credetemi. E giù applausi, a questo punto, dati sulla fiducia.
Abbiamo veramente chiamato qui sul palco, stasera, prima tappa del loro tour mondiale, le splendide ballerine della Scuola di Madam Genet, direttamente da New Orleans, reduci da uno dei festival più importanti al mondo, ecco a voi le Danseur de La Vi. (ignoro a tutt'oggi cosa diavolo sia).

Entrano una dozzina di donnine, il cui grado di avvenenza è variabile fra Vanna Marchi e Rosy Bindi. Di colpo capisco a chi era riferito il senso della frase iniziale. Tant'è che Bishop evita accuratamente di pronunziarlo, quel nome. Iniziano le danze. L'orchestra fa il suo onesto lavoro, gran sfavillio di piatti, suoni irripetibili di tromba. Sembra di stare in un circo, piuttosto che al Procasma. Mancano gli elefanti, ma i boa ci sono eccome: piumati al collo di queste povere guitte, alcune con le calze smagliate, e in carne ed ossa, come di prammatica, dentro enormi teche in plexiglass, illuminate e riscaldate, nel salone principale del locale.

Il pubblico applaude ad ogni accenno di streap-tease. Bishop rincara la dose, scegliendo dal pubblico due signore neanche male, adeguatamente vestite e che in preda ai fumi dell'alcool pensano bene di ingaggiare una gara di seduzione con le professioniste sul palco. La stessa pretesa differenza che passa fra un filmatino amatoriale su Youporn di due bancari, e Linda Lovelace se mai esistesse ancora, penso. L'effetto è grottesco. Uomini in tight presi a nolo, che probabili consorti delle stesse, sbavano sotto il palco, sgomitando con i fiati dell'orchestra, in una sorta di revival delle emozioni di qualche mezzo secolo fa. L'aria è elettrica. Tutti ridono, applaudono, volano busti, reggicalze, piume di struzzo. Una pacchia per la Protezione Animali, penso. I microchip dei microfoni governano alla perfezione enormi display luminosi che riprendono una passeggiata in carrozza fra i viali del quartiere a luci rosse di New Orleans. Sembra il filmino del viaggio di una coppia di sposi, in viaggio di nozze, nella capitale del peccato, prima di espiarlo a vita in qualche bilocale di Torre Maura. Insomma, la cosa va avanti per un po'.

Ad un certo punto esce Bishop sul palco, intima il silenzio nello stesso modo fatto prima. L'occhio di bue lo riprende, raggiante mentre fende il palco, avvolto nel suo doppiopetto bianco, e annuncia non senza la dovuta enfasi, il numero clou della serata.
Signori ecco a voi lo streap della donna cannone... Subito riparte la musica (fra le più ruffiane del repertorio) e uscito lui, l'occhio di bue immortala, a beneficio dei presenti, un donnone di stazza significativa, nella quale non faccio fatica a riscontrare tratti somatici coincidenti con quelli di Ada, titolare di un banco frutta, nel limitrofo mercatino rionale. Ada, cazzo, ma come ti sei conciata ?

La donna cannone non è priva di un suo fascino. Sa muoversi molto meglio del gruppo starnazzante di galline che ha ospitato il palco poco prima. E' sensuale, a dispetto della mole, e cattura senza difficoltà, l'attenzione generale. L'hanno truccata benissimo, ammetto. Lei sembra essere nata per il palco. Si libera con eleganza di tutto ciò che la ricopre, fino a restare in una guaperie che le guadagnerebbe, a vita, la presenza su qualche tela importante di Botero.

La sala esulta, volano sul palco fiori di plastica fatti a Taiwan, si stappano altre bottiglie. I boa continuano, indisturbati a dormire, dietro lo spessore delle teche. Un successo, finalmente.

Mi avvio, pensoso, verso l'uscita.
Ha smesso di piovere. Vuole le chiami un taxi, mi chiede premuroso Audrey il buttadentro.
No, grazie, faccio due passi a piedi.

New Orleans.
Perchè non ci sono mai andato ?

Risvegli

il logo de La7










L'alba arriva sempre prima. Non proprio la luce. Quella si intravede passate le sette. Fra una settimana, quando l'ora legale andrà in ferie, fino alla prossima primavera, cambierà ancora qualcosa. In ogni caso è buio, quando mi alzo.

Commetto, talvolta, la stronzata di accendere la televisione. A volte sul canale che stavo vedendo la sera prima. Alcune volte si apre, da sola, su La7.
Questa rete manda in onda, intorno alle sette un notiziario, come ogni brava tv che si rispetti. Servizio pubblico, si chiama, l'arte di informare, di fornire notizie assieme alle quali impacchettare sostanziose porzioni di pubblicità.

Vorrei conoscere il genio che ha deciso di inserire la musica, sotto la voce e le immagini che compongono i brevi servizi che in questo notiziario sono contenuti. Mi piacerebbe sapere se da piccolo gli raccontavano favole. E se queste avevano, o meno, il potere di terrorizzarlo e se per caso ne è rimasto, ora adulto, sufficientemente impressionato. Non riesco a spiegarmi, altrimenti, la necessità di condirle con un suono che recepisco come fastidioso, carico di pathos come nemmeno un videogioco di quelli che mettono paura. Che bisogno c'è ?

Provo a cercare le risposte. Necessità di aumentare la concentrazione in chi guarda ? Sottolineare il tono “serioso” delle stesse ? E' un loop, lo stesso motivo ripetuto all'infinito tanto quanto è lungo il notiziario (una sorta di collezione di news, le cosidette high-lights, le notizie di punta fornite in pillole, e montate “a seguire”, non approfondite, una sorta di riassunto dei fatti del giorno).
Ora, già la qualità delle stesse non è che invogli ad uscire di casa animati dalle migliori intenzioni nei confronti del prossimo. Metti che hai dormito anche male, e che ti sei svegliato, di tuo, anche peggio. Ma davvero, essere “aggrediti” da quel suono è quanto di più potente ti faccia desiderare, nell'ordine, di spegnere il dannato apparecchio e tornartene, lesto, sotto le coperte.

Qual'è l'intento ? Non dico che sarebbe meglio inserire un blues, di sottofondo, non ho idea di come potrebbe funzionare con un brano di Mozart (se del caso, dei più calmi), ma davvero mi chiedo perchè ?
Sono certo che una risposta ci sia. Instillare l'angoscia ? Rendere carico di pathos il giorno che avanza ? Mandare di traverso quella brodaglia nera (ma profumata ed essenziale) che chiamiamo caffè e che accompagna i primi attimi della giornata ? Cos'è ?

La7 è una rete chic. Vi alberga la cosidetta intellighenzia del paese, o buona parte di essa. Fa il suo onesto lavoro, per carità, e nel panorama desolante dell'offerta televisiva, rappresenta senz'altro un tentativo interessante (direi quasi intelligente) di pensare al mezzo televisivo. Ma per favore, per favore, cambiate quella cazzo di musica. Di motivi per essere angosciati ne ho abbastanza di mio.
Grazie.

18/10/10

Avetrana, in my mind

tele-spettatori















Delirio di sovraesposizione, come altro chiamarlo ?
Troupe televisive che hanno preso la residenza nel comune. Notiziari, talkshow, vite in diretta e non, opinionisti, psicologi a gettone, turisti del macabro. Poi ci lamentiamo di come ci prendono nei film (vedi Somewhere, della Coppola).

Che sta succedendo ? Una totale compenetrazione di piani, che se non fosse per il triste epilogo di una ragazzina alla quale è stata tolta la vita, sarebbe l’armamentario ideale di un delirante show televisivo.

Mi hanno colpito i riferimenti di questa donna, la mamma, la moglie “del mostro”…”siamo come Sandra e Raimondo”…e ancora, “gli faranno fare la fine della Franzoni”. Non so se sono arrangiamenti degli zelanti cronisti o frasi dette proprio da questa donna. E’ fortissimo il sospetto che il concetto di realtà, in questa donna, sia finito col coincidere con quello della fiction. Essere protagonisti a propria insaputa. Vedersi nella Tivu. Sedere magari nel salotto buono e guardare l’esterno della propria casa, dal video. Come avere un video citofono ad un tot di pollici.

Cosa stiamo diventando ? Anzi, cosa siamo già diventati ?
Ha un qualche ruolo tutta questa sovraesposizione ?
La tv vive di audience. Partiamo da qui. I programmi si fanno in funzione di quanti spot (leggi: da quanti telespettatori riescono a catturare) sono in grado di attirare. E' uno specchio ? Sono portato a pensare che la faccenda sia più complicata. Adesso, curiosamente, ho captato questo dialogo stamattina su una radio “importante”, va di moda stigmatizzare. Fa figo esecrare il proprio comportamento, additare questa tendenza all'overdose mediatica. Intanto, cominciamo col dire che la gente se la guarda sta roba. Vero: se gli proponessero, in alternativa, una lezione, che so, di Margherita Hack sulle origini del cosmo, gli sponsor si dissolverebbero anch'essi in qualche nanosfera. Allora cos'è ? E' che c'è un gran casino, un groviglio fra una cucina che sforna sempre lo stesso piatto (stavolta in crescendo, ammettiamolo). Ieri era Vermicino, poi Cogne, poi Eluana, oggi Avetrana. Avetrana è la quintessenza dell'informazione. E' lo spettacolo che cortocircuita se stesso, è scappata di mano, come dire. Allora si allunga il brodo, come in un gigantesco gioco di ruolo. Insieme a sessanta milioni di commissari, tecnici, ce ne sono altrettanti, ma di Maigret. E' il tramonto dei Giochi Preziosi, la fine di Trivial di ogni sorta. L'avvento di qualche cosa di altrettanto triviale, che però smuove, attira (insieme ai soldi degli sponsor) anche la curiosità “morbosa” dei più. Tutti pronti a dire la loro, come nemmeno il tifo per qualche sfigato concorrente per il reality di turno è in grado di suscitare.

E' pericoloso tutto questo ? Beh, stasera, quando gli agenti si sono presentati a casa del ragazzo romano che ha sferrato il pugno immortalato fortuitamente in un video della stazione del metrò di Roma, c'erano ad attenderli altri ragazzi....”Uno di noi..” urlavano, mentre veniva portato in carcere.

Ecco, senza scomodare leggi del taglione, ma veramente ad ognuno di loro, non augurerei di trovarsi una sorella, una mamma morta per una caduta provocata da un pugno, grottesco, assurdo, sproporzionato, dato da qualcuno cosi sofferente da non aver nel proprio vocabolario esistenziale altra risposta, ad una probabile provocazione, mettiamoci anche questo, che sferrare un pugno su un volto indifeso per definizione: quello di una donna.

Comincio a considerare con insistenza l'idea di privarmi della tv. Un'estrema, forse irrisoria, forma di immunizzazione. Ho paura, invece, che il contagio sia già un pezzo avanti.

17/10/10

Medioevo

La Premiere dame, Carla Bruni












Le grazie. Una volta si chiedevano le grazie.
Anche oggi. Anche la mamma di un connazionale morto nelle galere francesi, rispolvera questo istituto desueto.

Nelle moderne democrazie occidentali, stando alla carta, dovrebbero vigere diritti e doveri. L'essersi lasciati alle spalle l'elemento della discrezionalità (che certo non è stato un cadeaux, ma è costato morti e sangue, nel tempo), per arrivare a binari che incardinassero principi cosi ben saldi da costituire (d'accordo, malandato) il nostro "tappeto" sociale.

Menomale che Madame Sarkozy, sensibile alle buone cause, può ricordarsi i suoi natali e contribuire, dall'alto della sua autorità “morale” a dirimere i tanti lati oscuri che intorbidano la vicenda.

E' un tristo gioco delle parti. Per ottenere visibilità, oggi devi interagire in qualche modo con qualcuno che agli occhi della fruibilità del concetto di notizia, possa rompere il silenzio assordante e repentino, col quale tanti fatti di questo genere, si incamminano sotto il peso dell'indifferenza, e da highlights dell'orrore che affastellano la nevrastenica maniera di raccontarci, ad esser dimenticati in breve tempo.

Per servirci l'orrore popolare, tutti i palinsesti hanno oramai previsto l'acquisizione del certificato di residenza in quel di Avetrana. Di questa mamma che non si rassegna, se si torna a parlare, è perchè “menomale che Carla c'è”.

Stiamo messi cosi.

13/10/10

Italia Serbia 3-0

il mancato protagonista della serata: gli hanno rubato la scena










Era trecento eran giovani e forti…Li abbiamo visti, la telecamera indugiava sui loro bei toraci tatuati, incuranti della temperatura (sicuramente a causa del tasso etilico elevato). In poco più di trecento hanno deliberato che lo spettacolo non dovesse esserci. Che la loro decisione dovesse prevalere su quella di migliaia di altri, civili, spettatori che decidendo di sostenerne anche i costi, hanno gremito gli spalti per vedere la Nazionale esibirsi, dopo anni, in quel di Genova Marassi (per esser precisi Stadio Galileo Ferrarsi). Ecco. La serata di Raduno è stata, a tratti, un film di Bunuel.

Ora una sola domanda, ma che cazzo facevano ai cancelli d’ingresso ? Non sono uso frequentare gli stadi, men che meno in curva: mi bastò un’amichevole della magica Roma, vista in Curva sud all’Olimpico con mia figlia undicenne. Credo di aver già dato. Ma consentire l’ingresso ad un’orda di scalmanati, quando ci si riempie la bocca di tessera del tifoso, controlli accurati, perquisizioni, ha ancora un senso ? Ieri sera dovevano esser tutti a farfalle. Nello stadio è entrato di tutto. A giudicare dall’armamento pirotecnico, roba da far invidia a Mergellina.

L’UEFA uno di questi pachidermici enti, guidato chissà da qualcuno cosi out come colui che guidava (e guida tutt’ora, sembra) la potente federazione che governa un altro delirio di massa come la formula Uno, pizzicato in abiti succinti mentre si faceva fustigare da avvenenti fanciulle indossanti uniformi naziste…dai ! L’UEFA adesso pontificherà. Bizzarri come sono, e cosi impermeabili alle loro stesse regole, saranno anche capaci di farla ripetere la partita ancorché attribuire all’incolpevole Italia (salvo le disattenzioni o sottovalutazioni circa la pericolosità dell’orda serba) la dovuta condanna, concedendo la vittoria “a tavolino” all’Italia.

Una pessima figura. Fra il disastro totale, da registrare il buonsenso delle forze di polizia: o consapevoli di avere l’occhio addosso delle telecamere, o riottosi ad assumersi un’altra discutibile figura come quella ottentuta in quella città in tutt’altre circostanze…sta di fatto che hanno evitato la macelleria, magari coinvolgendo altri tifosi serbi che non prevedono le intemperanze come loro registro per seguire una semplice partita di pallone.

Il parossismo è in scena. Ieri sera, come migliaia di altri sfigati telespettatori, avrei voluto vedere le acrobazie di Cassano, ho visto invece quelle dei commentatori che nel giro di poco meno di un’ora hanno dato il meglio di loro, per giustificare (immagino) i lauti stipendi che percepiscono come commentatori esibendo, d’un colpo tutto il meglio dell’inettitudine.

Non amo fare infauste previsioni. Dopo Genova, dopo l’ Heysel, aspettiamoci il peggio.

11/10/10

Una sconfinata giovinezza, di Pupi Avati











Ultimamente, in ossequio a quella regola che recita mai mettersi di traverso alle scelte della propria compagna, sono andato a vedere due film scelti da lei.
Del primo, La solitudine dei numeri primi, poi magari ne parlo un'altra volta (se finora non l'ho fatto è perchè non avevo proprio molto da dire). Del secondo invece do qualche cenno qui.

Esco dalla sala con l'amaro in bocca. Ma come ? Uno spunto cosi “bello”, in una stagione caratterizzata dal dolore (Avetrana, ma anche l'Afghanistan con il suo tragico inventario di caduti) da far decollare i botteghini.

Esco con l'amaro in bocca perchè c'è qualcosa nel film che non mi ha convinto del tutto. Degna di nota la recitazione dei due protagonisti, la Neri e Bentivoglio, accurata la regia, “splendida come al solito la fotografia” (sopratutto nelle sequenze finali ambientate nella Romagna carica di nebbia).
Nebbia, ecco. La storia sembra perdersi, e chiude si, con un afflato quasi poetico ma non basta a dissipare quel senso di chiusura affrettata, di “vicolo cieco” della narrazione. Eppure, come detto, gli ingredienti ci sono tutti: il racconto dell'avvento della subdola malattia (l'Alzaimer) che lentamente ti fotte la mente, portandosi via i ricordi, scompaginandoli come un pazzo al quale venga data carta bianca nella Biblioteca Alessandrina di Roma.

Invece, il racconto procede a tratti in modo molto indugiante, caricando di pathos lo sviluppo della malattia nella testa di un affermato giornalista sportivo. Si è detto del ruolo della sua compagna. Coppia senza figli, per aperta ammissione della stessa, ad un certo punto del film, scatta il ruolo di mamma, e la terapia dell'amore (sentita scomodare dal regista stesso durante una intervista “d'ordinanza” propinata da qualche rete televisiva e alla quale ho prestato ascolto) che sostituisce un vuoto sociale (solo strisciato) compensato dai mezzi di una certo facoltosa famiglia borghese, con villa sull'Appia e parenti Primari di non si sa bene quali Ospedali.

Voglio dire. Vuoi fare un film (in un certo senso, avvalendoti dei soldi pubblici, Rai Cinema) su una malattia cosi, fanne una roba da denuncia. Non ti limitare a fare il poeta, dacci dentro. Non sono un regista, non ho intenzione di piazzarmi domattina, come fece il giovane Spilberg, con un banchetto dentro Cinecittà con sopra scritto Cletus Production, regista (lui lo è poi diventato). Ma perchè rovinare cosi un'idea ? Il film scivola malamente nel finale. Non dico altro per non rovinare il gusto della visione a chi vorrà “andare a vedere”, come fosse una mano di poker.

Abile nei flash back, iconografico nel ricostruire i dettagli dell'adolescenza del protagonista, in quel della provincia romagnola, il film si regge per “mestiere”, ma ha il fiato corto. Molto corto.

Sia.

10/10/10

Bentornato Mr.Clapton

la copertina del disco















Un'eterna giovinezza, quella di questo chitarrista. Non pago dei successi ottenuti, e in evidente fase creativa ha messo insieme una dozzina (13 per essere esatti) di brani, a suo dire assolutamente casuali, dividendoli con altri calibri del suo tenore e ha sfornato questo essenziale, anche già dal titolo (Clapton), lavoro.

Uno come lui potrebbe riscrivere anche il Requiem di Mozart, per intendersi. E la summa della sua straordinaria tecnica con la chitarra, traspare qua e là, in questi rilassanti e dolcissimi brani, impreziosendoli ancora di più e rendendoli subito di facile ascolto.

Clapton ha al suo attivo decine di dischi. Ha avute numerose soddisfazioni e riconoscimenti. La cosa che sorprende è che, al contrario di molti suoi colleghi, quando e se decide di tornare in sala d'incisione, è capace di fugare ogni e qualsiasi dubbio circa l'intento di fare cassa sfruttando la fama. Cosi, la riuscita del lavoro, sgombro da inesistenti (immagino) bisogni economici, ha tutta la freschezza e l'immediatezza di un'ennesima dichiarazione d'amore alla musica, foss'anche lo slow country delle sue ballad, cosi come dei brani più dichiaratamente ispirati alla tradizione blues.

Un ottimo lavoro, adatto a queste giornate che si approssimano, umide di pioggia e da passare in casa, con ottime sonorità di sottofondo, e rilassanti.

04/10/10

Jodorowsky regista.

una delle inquadrature più belle del film









Quest'estate, stavo spiegando di cosa mi vorrei occupare da qui a breve ad un amico, al telefono.
L'amico (Antonio La Malfa) mi cita il nome di un testo Psicomagia (Feltrinelli ed.).
Metto piede in una libreria e lo prendo. L'ho letto con intervalli strani. Tant'è che è ancora in macchina, sui sedili posteriori, pronto a tenermi compagnia, durante una delle prossime pause di lavoro.

Sempre intorno a questo nome, ho preso “a scatola chiusa” anche i dvd di alcuni suoi film.
Ieri, complice una visita di un amico con la sua compagna, dopo pranzo, abbiamo messo nel lettore il primo, La montagna sacra e ce lo siamo sparato.

L'avevo visto da pischello. Una specie di cineforum, ricordo vagamente ne venne fuori un dibattito (all'epoca andavano molto i dibattiti, dopo la visione di un film), ma rivedendolo, ieri, ho toccato con mano lo stato di conservazione della memoria sull'argomento: pessimo. Avevo dimenticato quasi tutto, e rivederlo non ha mancato di svegliare ex novo, l'apprezzamento per un lavoro che va assolutamente storicizzato, pena il non poterlo valutare bene. La pellicola è del 1974.
Jodorowsky è un grande. Un precursore, il ricorso al simbolismo abusatissimo d'accordo, ma l'efficacia della regia è nel montare le scene senza alcuna concessione al didascalismo. Un mio amico ama dire (per i libri) “il testo è questo” (come a dire...non c'è altro, solo il testo a tenere in piedi tutto). In questo caso, (la montagna sacra) il discorso è analogo: il film è questo. Punto.
Può piacere o meno. Ma forse non c'è tanto da dover discutere.
Insomma, una gran bella visione.

Non paghi, vista l'ora, abbiamo messo sul “piatto” un altro suo film...stavolta Santa Sangre.
Tutte le perplessità sulla Montagna sacra, dissolte. Il film è del 1989 e l'abbiamo trovato una perla.
Jodorowsky, mantenendo ferma la macchina da presa anche quando gira con la camera a spalla, lavora intorno al tema dell'ossessione e del condizionamento della famiglia. Il ruolo dispotico di una madre, e il disperato tentativo del figlio (sullo schermo interpretato proprio da suo figlio Axel) con veloci incursioni nel simbolismo, nella satira religiosa, con venature di sociologia di ritorno (essendo girato in un imprecisato paese centro americano, probabilmente in Messico).

Il film è lungo, solo a tratti prolisso, ma merita davvero la visione. Dentro c'è Fellini, e altri. Forte è stata l'impressione che alcuni dei registi nostrani molto gli debbano. C'è la scena ripresa “parapara” anche da Benigni in un suo film, allorquando un gruppo di diversamente abili vengono invitati ad assumere sniffare cocaina, con tutte le conseguenze del caso. Jodorowsky, come detto, l'ha girato nel 1989. Per quantità e qualità di temi, il film ti arriva addosso come una locomotiva. Entra e salvo qualche sbavatura, la narrazione è efficace e non priva di poesia.


Insomma, una grande scoperta, tardiva forse, ma inaspettatamente gradita.
Adesso non resta che attendere una serata di pioggia e dare fondo anche al terzo dei tre dvd, Il topo.

Il mio amico, che l'ha visto, lo ritiene addirittura superiore ai primi due.

Da vedere.