09/03/24


Prove tecniche di distensione.

Ci siamo persi, per poco, la famosa scena della scarpa battuta con piglio sui banchi dell’aula del Palazzo di vetro di NY, ad opera di un Kruscev accigliato (abbiamo fatto in tempo a vedere l’altra, lanciata e schivata con prontezza di riflessi da Bush Junior, all’indomani della “Guerra del Golfo”).

Siamo venuti su, sotto il macabro ombrello di quell’eufemismo coniato con felice intuizione da qualche stratega di chissà quale think-tank, “equilibrio del terrore”. Equilibrio che ha consentito lunghe decadi di pace in un’Europa, storicamente teatro di guerre sanguinose.

Quest’atmosfera di calma relativa, ha visto crescere (anche se in scala diseguale) il benessere, lo stato di salute, l’istruzione di una popolazione che oggi, se non altro che per ragioni anagrafiche, se ha una memoria delle guerre ce l’ha per via della letteratura, del cinema o perché dalla comoda posizione di chi osserva le vede ancora attive in luoghi del mondo tanto lontani quanto sostanzialmente innocui.

Dal 24 febbraio di due anni fa, questo scenario è cambiato. La guerra è arrivata “in giardino”, a due passi dall’uscio di casa. L’invasione da parte della Russia di una larga parte dell’Ucraina, le scene di morte e devastazione arrivano nelle nostre case, con frequenza quotidiana, mentre stiamo finendo di consumare dei rassicuranti tortellini di Giovanni Rana.

Ed è fatale che la cosa finisca per riguardarci. Prim’ancora che per i suoi effetti perversi (prezzi delle materie prime energetiche schizzati alle stelle, politiche monetarie deflattive, tassi dei mutui sull’ottovolante) proprio perché ha spazzato via, dal nostro immaginario, l’idea che dal nostro vocabolario la parola guerra fosse sparita, talora arrivando ad una sorta di simpatia di sottotraccia per le aperture dei McDonalds sotto le torri del Cremlino…o dalle foto, inevitabilmente in bianco e nero, degli astronauti russi e americani a bordo della stessa navicella in orbita sulle nostre teste, quasi che, ma si in fondo si possa convivere tutti insieme senza eccessivi problemi.

Se c’è una cosa che ha caratterizzato i cambiamenti degli equilibri internazionali in tutto questo periodo è la velocità. A partire da quella con la quale, dalla caduta del muro di Berlino, si sono sgretolati come in una reazione a catena le nazioni cosiddette del fu “Patto di Varsavia” (quella parte di Europa che da allora guarda più ad Ovest che ad Est).

Ed è ancora la velocità, sebbene siano già passati due anni, la costante di un processo che oggettivamente non può rimanere cristallizzato nel paradigma “aiuti all’Ucraina fintanto che la Russia non si sarà ritirata”.

Una condizione di belligeranza continuata nuoce a tutti gli attori in causa. Ne soffrono i commerci, le rispettive economie. Già il ricorso alle armi, in luogo di un necessario negoziato, tradisce la volontà di sparigliare le carte, spinte da un malinteso desiderio di ridare centralità mondiale ad un paese simbolo che ha visto il suo peso specifico ridursi (e di molto) agli occhi della storia.

Il recupero di antiche vestigia, gli orgogli nazionalistici mai sopiti suonano oggi ancora più anacronistici in uno scacchiere internazionale dominato dalla fitta rete di scambi e relazioni commerciali. E’ un "mondo più piccolo" si usa dire e proprio per questo la variabile “guerra” appare tanto assurda quanto, alla lunga, controproducente. Non dovrebbe trovare posto, fra le variabili con le quali regolare i contenziosi fra stati sempre meno, in prospettiva, intesi come rigida delimitazione territoriale, in luogo di un’armonica coesistenza di stili di vita, culture, fra di essi.

Due anni, più di cento e qualcosa settimane, sono decisamente una porzione di tempo troppo lunga da sacrificare sull’altare della velocità. E c’è da sperare che sia questo, fra i tanti, l’elemento prevalente per giungere (anche in tempi inaspettati) ad una composizione del conflitto in terra d’Europa.


 

 

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