Prove tecniche di distensione.
Ci siamo persi, per poco, la famosa scena della scarpa
battuta con piglio sui banchi dell’aula del Palazzo di vetro di NY, ad opera di
un Kruscev accigliato (abbiamo fatto in tempo a vedere l’altra, lanciata e
schivata con prontezza di riflessi da Bush Junior, all’indomani della “Guerra
del Golfo”).
Siamo venuti su, sotto il macabro ombrello di
quell’eufemismo coniato con felice intuizione da qualche stratega di chissà
quale think-tank, “equilibrio del terrore”. Equilibrio che ha consentito lunghe
decadi di pace in un’Europa, storicamente teatro di guerre sanguinose.
Quest’atmosfera di calma relativa, ha visto crescere (anche
se in scala diseguale) il benessere, lo stato di salute, l’istruzione di una
popolazione che oggi, se non altro che per ragioni anagrafiche, se ha una
memoria delle guerre ce l’ha per via della letteratura, del cinema o perché
dalla comoda posizione di chi osserva le vede ancora attive in luoghi del mondo
tanto lontani quanto sostanzialmente innocui.
Dal 24 febbraio di due anni fa, questo scenario è cambiato.
La guerra è arrivata “in giardino”, a due passi dall’uscio di casa. L’invasione
da parte della Russia di una larga parte dell’Ucraina, le scene di morte e
devastazione arrivano nelle nostre case, con frequenza quotidiana, mentre
stiamo finendo di consumare dei rassicuranti tortellini di Giovanni Rana.
Ed è fatale che la cosa finisca per riguardarci. Prim’ancora
che per i suoi effetti perversi (prezzi delle materie prime energetiche
schizzati alle stelle, politiche monetarie deflattive, tassi dei mutui
sull’ottovolante) proprio perché ha spazzato via, dal nostro immaginario,
l’idea che dal nostro vocabolario la parola guerra fosse sparita, talora
arrivando ad una sorta di simpatia di sottotraccia per le aperture dei
McDonalds sotto le torri del Cremlino…o dalle foto, inevitabilmente in bianco e
nero, degli astronauti russi e americani a bordo della stessa navicella in
orbita sulle nostre teste, quasi che, ma si in fondo si possa convivere tutti
insieme senza eccessivi problemi.
Se c’è una cosa che ha caratterizzato i cambiamenti degli
equilibri internazionali in tutto questo periodo è la velocità. A partire da
quella con la quale, dalla caduta del muro di Berlino, si sono sgretolati come
in una reazione a catena le nazioni cosiddette del fu “Patto di Varsavia”
(quella parte di Europa che da allora guarda più ad Ovest che ad Est).
Ed è ancora la velocità, sebbene siano già passati due anni,
la costante di un processo che oggettivamente non può rimanere cristallizzato
nel paradigma “aiuti all’Ucraina fintanto che la Russia non si sarà ritirata”.
Una condizione di belligeranza continuata nuoce a tutti gli
attori in causa. Ne soffrono i commerci, le rispettive economie. Già il ricorso
alle armi, in luogo di un necessario negoziato, tradisce la volontà di
sparigliare le carte, spinte da un malinteso desiderio di ridare centralità
mondiale ad un paese simbolo che ha visto il suo peso specifico ridursi (e di
molto) agli occhi della storia.
Il recupero di antiche vestigia, gli orgogli nazionalistici
mai sopiti suonano oggi ancora più anacronistici in uno scacchiere
internazionale dominato dalla fitta rete di scambi e relazioni commerciali. E’
un "mondo più piccolo" si usa dire e proprio per questo la variabile “guerra”
appare tanto assurda quanto, alla lunga, controproducente. Non dovrebbe trovare
posto, fra le variabili con le quali regolare i contenziosi fra stati sempre
meno, in prospettiva, intesi come rigida delimitazione territoriale, in luogo
di un’armonica coesistenza di stili di vita, culture, fra di essi.
Due anni, più di cento e qualcosa settimane, sono
decisamente una porzione di tempo troppo lunga da sacrificare sull’altare della
velocità. E c’è da sperare che sia questo, fra i tanti, l’elemento prevalente
per giungere (anche in tempi inaspettati) ad una composizione del conflitto in
terra d’Europa.
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