Monica(*) mi chiede qual è per me il valore di una fotografia.
Beh, dipende dal soggetto. In questo caso sto parlando di
una foto che non ho scattato io. Ma altri. E che raffigura altre persone
(conosciute e non, parenti e non). Oppure luoghi, una luce, uno scorcio.
Qualcosa di inusuale, sul quale magari hai gettato un’occhiata distratta tante
volte ma che solo l’occhio di chi l’ha scattata, in quel momento, con quella luce, rende
speciale, nuova, ti colpisce.
Ecco, per me la fotografia è innanzitutto dialogo. Può
sembrare paradossale: ma come? Da un’immagine statica tu ricavi un dialogo? Si,
naturalmente, se questa è capace di lasciare libera la mia fantasia di
interpretare il senso. E quasi sempre è cosi. Viviamo di interpretazione e non
è affatto detto che un’immagine non sia in rado di suscitarla. Cosa c’e’ da
interpretare. Fotografico, fotografa, è un termine che viene usato
impropriamente. Come fosse un documento ufficiale. Un qualcosa di
incontrovertibile.
Non è affatto cosi, almeno per me. Anche la più “banale”
delle fotografie si incarica di dirmi una montagna di cose. Da un dettaglio
puoi percepire tante cose, puoi spingerti ad immaginare, a supporre. Non è
l’oggetto in se che è privo di parola. Lo diventa agli occhi di chi non vuole
cercarvi un senso.
Tralascio la montagna di sensazioni che ricavo da foto di
parenti, amici, gente che non c’è più. L’operazione di aprire l’album
fotografico (e da giovane ne scattavo!) la vivo ad intervalli sempre più radi,
consapevole che è inevitabile il tasso di malinconia cresca. Adesso c’è
l’hard-disk di un computer.
C’è Dropbox (o qualunque altro cloud) che ti
permette di condividerla con altri. C’e’ l’immagine sul monitor, che con un
colpo di click lascia il posto ad un’altra. Le foto di un viaggio, di una
festa, di un figlio: ridotte alla forma liquida, immateriale, scomposte in
codice binario, in luogo del vecchio supporto cartaceo, che al virare di colore
si incarica di dirci quanto tempo è passato.
Viviamo nella società dell’immagine. Superato lo spaesamento
per il passaggio dall’analogico al digitale, la foto acquista nella percezione
di ciascuno significati sempre diversi. Voglio pensare ad un futuro nel quale
il valore di “documento”, l’accezione corrente di “prova fotografica” venga
sempre più abbandonato a favore di un utilizzo sempre diverso, e che si faccia
carico di quella cosa impossibile che è aiutare il cervello umano ad elaborare.
Un fertilizzante, mica altro.
(*) Monica è Monica Cillario, una fotografa "free-lance" come ama definirsi. Ha un blog, molto bello, che si chiama "faccio tutto bene, domani", e si trova qui.
Collabora, inoltre, con un giornale online dedicato alla fotografia, si trova qui
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la foto in alto è uno screen-shot da un vecchio filmino in super8 girato da mio padre, probabilmente intorno al 1958, all'aeroporto di Mogadiscio.
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